Una scuola che si difende non crea cittadine e cittadini consapevoli

di Laura Campanello

Il dibattito intorno ai figli che tornano o meno a casa da soli si sta scatenando e fondamentalmente mi trovo d’accordissimo – sia come psicopedagogista che come madre - con coloro che sostengono che i ragazzini delle scuole medie debbano e possano sperimentare l’autonomia e la fierezza che deriva dal fare brevi tratti casa scuola e scuola casa, magari tra loro, ridendo e chiacchierando. Condivido anche che sarebbe bello che i genitori imparassero a fidarsi dei figli e a lasciarli un po’ liberi e responsabili. Ma la questione ragazzi che tornano a casa da soli o meno, è connessa a molte altre dimensioni che si toccano a vicenda, inevitabilmente. Quando ti senti dire – già 6 anni fa – da un dirigente scolastico, dopo aver chiesto in un’assemblea se tuo figlio potrà uscire da solo da scuola: «Certo, purché firmi il modulo che mi solleva da ogni responsabilità e che se finisce sotto un camion non viene a piangere da me!» c’è qualcosa che non va.

Quando una ministro ha come unico problema il rispetto di una legge – forse ormai vecchia e superata – e la tutela delle istituzioni da responsabilità legali anziché la questione di COME possiamo far sì che una città, una società sia a maggior misura di ragazzi che chiedono solo di crescere autonomi, non eccessivamente minacciati di essere investiti, non prigionieri di adulti troppo preoccupati e stanchi delle loro complicate esistenze per vederli nei loro bisogni, nei loro progetti, nei loro esperimenti di responsabilità e libertà, vincolati da quegli stessi adulti che poi li vorranno responsabili, motivati e liberi, dopo averli incatenati e addomesticati eccessivamente all’obbedienza in nome della protezione. Del ragazzino o dell’adulto?

Le ingiunzioni che ci arrivano dall’esterno sono sempre di più, sempre più difficili da ottemperare, sempre più contraddittorie tra loro e se non riesci a corrispondere a tutto, di nuovo è colpa tua. Perché fallire ormai è una colpa, non un’eventualità che fa parte della vita, che per alto aumenta di verificarsi con il complicarsi delle richieste di prestazione esterne. E’ difficile non fallire quando, secondo un ministro devi lavorare per emanciparti e far girare l’economia, secondo un altro non devi essere troppo dipendente dall’uomo per evitare legami che diventano soffocanti e anche pericolosi, devi realizzare le tue ambizioni, portare avanti un nuovo modello del femminile libero di essere come meglio crede, ma sicuramente completo, articolato, soddisfatto. Però devi fare tutto questo tornando a casa entro le 13, perché esce il figlio da scuola e te lo chiede un altro ministro.

Ma senza deludere il datore di lavoro, che ti dice chiaramente che: «se hai tutte queste esigenze famigliari stai pure a casa, perché sei licenziata» … e allora ti senti tirata come un burattino nelle mani di troppi Mangiafuoco, che non ti ascoltano. Poi ti permetti di prendere una decisione, piccola, semplice, ponderata: «mio figlio alle medie va e tona da solo». Mi viene detto che «se verrà investito e sarà colpa mia» perché non l’ho protetto, accudito abbastanza, e perché tra il mio lavoro e la vita di mio figlio ho scelto il mio lavoro – magari per un capriccio ambizioso – Perché se ami davvero tuo figlio correresti a prenderlo a scuola alle 13, felice di rinunciare al tuo lavoro e far rinunciare lui alla sua autonomia. E il giudizio, anche del ministro, diventa un giudizio morale: perché essere fuori dalla scuola del figlio alle 13 è amore.

Allora tieni tuo figlio incollato a te, gli insegni che l’ amore coincide con la dipendenza reciproca, sapendo che poi lo accuseranno di vivere un amore sbagliato quando lo riproporrà dentro la coppia che creerà.

Aiuto. Siamo all’interno di troppe situazioni che l’antropologo e psicologo G. Bateson definì “doppio legame”: ingiunzioni opposte che impediscono una risposta esatta. Tradotto in parole povere: come la fai la fai, la sbagli e comunque, l’importante, è che quando sbagli sia colpa tua, non certo di altri che se ne laveranno le mani.

Alcuni esempi? DEVI essere libero MA come ti dico io, DEVI essere lavoratrice MA alle 13 essere davanti a scuola, la scuola è luogo di espressione dei talenti e riscatto sociale MA solo se sei come ti viene chiesto, è il luogo dove si firma un patto di corresponsabilità tra istituzioni e genitori, studente compreso, ma poi la scuola ti dice cosa devi fare e se non lo fai se colpevole.

E allora viene l’ansia, alla madre, al figlio… a tutti, e si trasforma in rabbia o apatia se non in depressione e profondo malessere e malcontento. Che non giova a nessuno nella società. Ma mi chiedo, allora: c’è ancora qualcuno che è ancora in grado o che ha voglia di guardare le questioni che si pongono nella loro complessità, nella loro interconnessione, nei valori di cui sono portatrici, con lungimiranza e speranza anziché con terrore e bisogno di semplificazione che soffoca e banalizza? Chi tiene insieme i pezzi? Chi guarda l’intero, chi guarda dall’alto e cerca o vede il senso, la coerenza, il valore di ciò che si fa e si decide? Ci chiediamo ancora che società vogliamo?

Nel mondo che vorrei per me e soprattutto per le nuove generazioni, non c’è una lotta tra “uscire soli da scuola” o “uscire accompagnati”: c’ è un dialogo tra valori, esigenze, obiettivi lungimiranti e sguardi educativi e di senso che si integrano. Non c’è la solitudine di un singolo cittadino che cerca di comporre una integrazione impossibile tra elementi sconnessi e contraddittori. Nel mondo che vorrei non c’è solo una scuola che si difende, una medicina che si difende, un istituzione che si difende, un cittadino che si difende ma c’è una politica e una società che si occupa di scuola e medicina e molto altro, dando un senso complessivo a ciò che fa, avendo cura delle persone nella loro interezza e complessità, per altro sempre maggiore , e avendo in mente un futuro migliore di questo presente.

Non creiamo esseri umani che devono accontentare una legge, che magari ha funzionato – forse – anni fa. Ma ora è anacronistica. Creiamo invece leggi che aiutino l’essere umano, ad ogni età, a vivere meglio.

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