Perché nell’Islam le donne sono «campi da arare»

Houria Abdelouahed

«Il nostro tempo vive una condizione di angoscia di fronte al carattere anarchico e imprevedibile della violenza terrorista» dice Massimo Recalcati, direttore scientifico della quarta edizione del Festival della Psicologia, a Torino fino a domenica 8 aprile. Dopo aver parlato, nelle edizioni precedenti, di felicità, di fiducia, di storie, quest’anno , con il titolo «Io non ho paura» ci porta in una tra le più oscure emozioni dell’animo umano: la paura . L’obiettivo è trovare una strada che ci permetta di affrontare le paure cercando le risposte ad alcune domande: Quali sono le sue origini? Quali le ideologie e i fantasmi che nutrono lo spirito del terrorismo? Come si può vivere senza rinunciare alla vita in questo clima di insicurezza? Esistono modi per pensare individualmente e collettivamente una prevenzione possibile della violenza?

Anticipiamo qui la lectio che la psicoanalista Houria Abdelouahed terrà domenica 8 aprile alle ore 17,30 alla Cavallerizza di Torino.

Donne islam e violenza

Quando si parla di Islam, si pensa frettolosamente alla spiritualità. Ebbene, occorre dissociare l’Islam teologico-religioso dagli altri movimenti che hanno fatto la grandezza della civiltà arabo-musulmana: mistica, poesia, filosofia, scienze, traduzione...

Scrive il mistico Ibn Arabi, nato a Murcia, Andalusia, nel 1165 e morto a Damasco, Siria, nel 1240: «Sterile (letteralmente: “qualcosa su cui non si può contare”) è ogni luogo che non accetta il femminile»; oppure: «L’umanità non è la mascolinità (o la virilità)»; o ancora: «La femminilità circola per il mondo».

Immenso è il divario dal testo teologico (della giurisprudenza musulmana) che ha fabbricato una storia-leggenda. Oggi la nostra storia, lo statuto della donna, l’adozione, il matrimonio, la testimonianza, l’eredità sono legati direttamente alla scrittura e alla trasmissione della storia-leggenda tramandata a partire dai testi agiografici che applicano alla lettera il testo coranico. Ricevendo i privilegi che il Testo gli accorda, lo storico ha così fabbricato una Storia conforme a una politica del potere, anzi del sovrapotere (per adottare l’espressione di Foucault) e a un discorso di dominio. L’Islam ha instaurato un mondo gerarchizzato che riceve le sue leggi dall’alto. Il religioso ha istituito una superiorità maschile che ha fondato il politico sacro. Sacro che si oppone a ogni lavoro di pensiero. Nell’intento di preservare la preminenza maschile, i testi avallano non soltanto l’idea della donna come oggetto di scambio, ma dell’annullamento della struttura-Altrui, per usare un termine di Deleuze. I testi degli agiografi diventano così il Testo del pensiero politico e costituiscono l’humus concettuale che ha permesso l’esclusione della donna da tutti i dispositivi che consentano un’autonomia o un’emancipazione. Per tradurre nella nostra odierna terminologia, le leggi del cielo avevano di mira la donna in quanto essere di diritto.

«Le vostre spose sono per voi come un campo da arare. Venite pure al vostro campo come volete», oppure: «Sposate (inkahû) allora due o tre o quattro tra le donne che vi piacciono» (il termine arabo inkahû significa “accoppiatevi”, “possedete carnalmente”), o ancora: «Se sono insubordinate, relegatele in camere a parte e battetele». Il rispetto per l’uomo diviene un dovere divino e la legge divina si confonde con la legge dell’uomo. Trovare una tecnica per adattarvi le punizioni farà del corpo femminile il personaggio principale: esso sarà punito, abbandonato (beninteso, si tratta del corpo erogeno), oppure posseduto nell’umiliazione. Così, il corpo è rinchiuso nei meandri di un potere politico che si esalta e si fa forte dell’ingiunzione divina. Il sistema punitivo è da collocare in una certa economia politica che assoggetta il corpo femminile e che opera su di esso una presa immediata, tanto fisica che psichica. Ripensiamo a «un bambino viene picchiato» [S. Freud, Opere, vol. IX, Un bambino viene picchiato (Contributo alla conoscenza dell’origine delle perversioni sessuali) (1919), pp. 41-65, Bollati Boringhieri, Torino 1989]: questo versetto, appreso fin dalla più tenera infanzia e veicolato da un’intera cultura, può porre di fronte a una mancata repressione della sequenza seconda del fantasma del bambino picchiato e a una sua mancata isterizzazione che lo rende incline alla malinconia o al masochismo. Il reale sociologico impregnato di religioso, che oggigiorno conosce un’inquietante recrudescenza, crea un corto circuito fra una sequenza – che è un puro prodotto dell’analisi – e una realtà materiale, concreta, impedendo così una costruzione fantasmatica. Nei testi esegetici l’uomo appare come una figura di un padre eccitato, straripante, e la donna come una figlia incestuosa che provoca l’eccitazione del padre. E’ proprio nella sura “Le Donne” che troviamo questo versetto: «Presto getteremo nel Fuoco coloro che non credono ai nostri segni. Ogni volta che la loro pelle sarà consumata ne daremo loro un’altra, cosicché assaporino il tormento».

Di fronte a quest’insostenibile crudeltà si profila il quadro di una janna (Paradiso). I commentatori si affrettano a porre il divino dalla parte del principio maschile. È esemplare, a questo proposito, il loro discorso sul Paradiso e su ciò che è promesso agli uomini nell’aldilà. La janna si presenta come surplus di sensualità, eccesso di lascivia, revoca di tutti i divieti. Il sessuale diviene un’interminabile orgia e un illimitato godimento maschile. Davanti all’interminabile corteo delle huri, la virilità dell’uomo, dipinta come assoluta, compromette l’idea stessa del piacere sessuale, perché in questo immaginario il sesso rimane costantemente congestionato, in erezione perpetua, senza possibilità di sfogo. Suyûtî descrive una verga che non riposa mai e fa dell’uomo del Paradiso il fratello di Urano.

In questa letteratura teologica, che oggi sta tornando in scena, Dio diviene colui che dice all’uomo: «Godi». «Godi!» diventa un imperativo divino. È in nome del godimento che l’uomo crede, e non in nome della rinuncia alla pulsione.

Qui, il destino collettivo delle donne è talmente imbevuto di violenza sacralizzata da compromettere il senso delle esperienze individuali di ognuna.

(Traduzione dal francese di Marina Astrologo)

L’autrice

Houria Abdelouahed, psicoanalista e traduttrice è Maitre de conférences all’università ParisDiderot. Coautrice insieme con Adonis di Violence et islam (Seuil,2015). Fra le sue opere principali: Figures du féminin en islam, (Press Universitaires de France, 2012,2015,2016); Les femmes du prophéte (Seuil,2016).

IO NON HO PAURA
IV Edizione Festival della Psicologia, fino all’ 8aprile 2018
La Cavallerizza Reale, Torino

Io non ho paura è il tema del 2018: psicologi, psicoanalisti, scrittori e filosofi italiani e stranieri rifletteranno sui fenomeni terroristici, per provare a trovare insieme una chiave di lettura inedita e una possibile strada di comprensione, che vada oltre le spiegazioni politiche, economiche e storiche che sembrano oggi non bastare più.
Al festival, organizzato dall’Ordine degli Psicologi del Piemonte, intervengono: gli psicoanalisti Maurizio Balsamo, Aldo Becce, Massimo Recalcati, Francesco Stoppa, Uberto Zuccardi; Enzo Bianchi, fondatore della comunità monastica di Bose e Izzeddin Elsir, Presidente dell’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia; lo scrittore Marco Belpoliti; Elisabetta Biffi, responsabile del laboratorio pedagogico sulla violenza VIOLE-LAB; Lucio Caracciolo, saggista ed esperto di geopolitica; l’esperto del mondo antico Federico Condello; i filosofi Simona Forti, Federica Manzon, Bruno Moroncini, Simone Regazzoni, Rocco Ronchi; lo psicologo Mauro Grimoldi; il giornalista Gad Lerner; Clara Mucci, psicologa clinica e psicoterapeuta; la pedagogista Jole Orsenigo.
Il festival è organizzato con il patrocinio e la partnership di Regione Piemonte, Consiglio Regionale del Piemonte e Università degli Studi di Torino e con il patrocinio della Città di Torino. Tutti gli incontri sono gratuiti, con prenotazione.

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