Quel che resta di ArciLesbica: oltre a Bergamo e Udine lascia anche il circolo di Bologna

di Elisa Manici

Venerdì 23 marzo, riunite in un’assemblea straordinaria, le socie del circolo ArciLesbica di Bologna hanno votato all’unanimità il distacco da ArciLesbica nazionale, diventando Lesbiche Bologna. Un nome provvisorio per un’associazione che, garantisce la presidente Carla Catena: “Resta la stessa. La nostra storia, i nostri progetti, le nostre socie e le nostre relazioni sul territorio rimangono gli stessi”. La presidente nazionale Cristina Gramolini commenta: “La decisione presa è brutta, perché cancella 20 anni di storia di ArciLesbica Bologna, ma sono felice che finiscano le guerre intestine e che ognuna vada per la sua strada, così staremo tutte meglio”. Annuncia inoltre che: «C’è già un gruppo di donne pronto a ricostituire un circolo ArciLesbica a Bologna, così come anche a Bergamo». Quest’ultimo è il primo circolo territoriale ad aver votato per la disaffiliazione, pochi giorni prima del capoluogo emiliano. Al momento non si sa se anche a Udine, che ha dato notizia del distacco e del cambio di nome solo poche ore fa, ci siano donne disponibili a rifondare un circolo locale.

Dal congresso straordinario del dicembre scorso, è iniziata un’emorragia degli allora 14 circoli locali che pare inarrestabile: Treviso ha sciolto il circolo, Perugia si è autosospeso, Bergamo, Bologna e Udine disaffiliati, e voci di corridoio danno per certo che almeno un altro paio di circoli siano intenzionati a seguire la stessa strada. Ma i problemi politici interni ad ArciLesbica sono cominciati ben prima del dicembre 2017. La scintilla iniziale del conflitto prima acceso e poi lacerante tra le stesse socie si può far risalire al settembre del 2016, con l’appello delle 49 lesbiche contro la gestazione per altri (Gpa). Tra le firmatarie c’erano alcune ex dirigenti storiche dell’associazione, tra cui la stessa Gramolini (rientrata in campo successivamente) e Francesca Polo. L’appello ha riportato agli onori delle cronache la Gestazione per altri, di cui si era parlato per la prima volta sui media generalisti durante la discussione della legge sulle unioni civili, e che molto aveva contribuito allo stralcio della stepchild adoption, di cui – giova ricordare - avrebbero usufruito soprattutto madri lesbiche, in percentuale la grande maggioranza dei genitori Lgbt+ (lesbiche, gay, bisessuali, transgender e altri). Per tutto il 2017, tramite i social, ma anche azioni politiche nella vita reale, si è attuato e poi consolidato il riposizionamento di ArciLesbica. Unica associazione lesbica nazionale nel panorama del movimento Lgbt+ italiano, stava da qualche anno mostrando segni di stanchezza, vivacchiando grazie all’autorevolezza politica acquisita durante la sua storia, con attività ridotte, e zero visibilità sui media.

Il rebranding come radicali, femministe della differenza, quindi essenzialiste, anticapitaliste, anti Gpa, diffidenti verso le identità non binarie, contro il lavoro sessuale, ha garantito uno spazio di visibilità che l’associazione non riusciva a conquistare ormai da anni. Il rebranding non è stato privo di costi: molti circoli hanno iniziato a spazientirsi, non condividendo questo cambio di rotta, e trovandosi a dover giustificare posizioni a loro aliene nelle reti territoriali di cui fanno parte, in cui spesso ci sono soggettività che si definiscono anch’esse anticapitaliste e radicali, ma con un posizionamento transfemminista e queer agli antipodi delle opinioni arcilesbiche. I circoli chiedono il congresso anticipato. Per la prima volta nell’ultraventennale storia dell’associazione (c’era stato un tentativo in tal senso, abortito, nel 2008), invece di esserci un’unica mozione congressuale, presentata dalla dirigenza uscente, ce ne sono state due: una, quella classica della segreteria uscente, che metteva nero su bianco la radicalizzazione, dal titolo significativo: «A mali estremi, lesbiche estreme». L’altra, quella dei circoli ribelli, meno tranchant sulla Gpa e su varie altre questioni, intitolata “Riscoprire le relazioni”. Contrariamente alle previsioni, con una serie di piccoli colpi di scena tipici dei congressi politici, ha vinto, di misura, la prima, con la presidenza assegnata alla madre fondatrice Cristina Gramolini. Si arriva così, tra una defezione e l’altra, al presente.

Nonostante le parole di Gramolini sulle incolmabili differenze e sull’opportunità di una separazione, resta il fatto che il circolo di Bologna è stato, in tutta la storia di ArciLesbica, il più grande d’Italia. Fino a qualche anno fa, addirittura, faceva più del 50% del tesseramento nazionale. Quindi, dal punto di vista economico, questa è una perdita significativa per l’associazione nazionale, che si somma a quella dei circoli più piccoli, e che costringerà ArciLesbica a trovare nuove forme di autofinanziamento. Gramolini sottolinea: «Non ci importa di avere le masse, ma di tenere in vita un punto di vista non appiattito sulle posizioni imposte». Imposte da chi, viene da domandarsi? Se i circoli fuoriusciti riconoscono, pur non essendo d’accordo, e pur considerando autoritaria la gestione attuale, la validità delle opinioni di ArciLesbica nazionale, non altrettanto fa quest’ultima, che delegittima spesso le posizioni delle altre, insinuando che siano dettate dai gay, a cui le lesbiche che le sostengono sarebbero sottomesse. Oltre ad essere schiave del neoliberismo e della cultura pop, citata spesso con disprezzo ma che, ricordiamo, è stata sdoganata e anzi costruita dallo stesso Pci dagli anni ’50 in poi.

Al di là della cronaca dei come e dei perché ogni circolo ha deciso di staccarsi da ArciLesbica, poco interessanti per chi non fa parte delle singole realtà territoriali, resta da vedere se ci saranno davvero le forze per aprire ma soprattutto per tenere in vita i circoli rifondati dopo la separazione. ArciLesbica, peraltro, vede nei distacchi una sua pratica politica storica, visto che è nata nel dicembre 1996 proprio dalla scissione da Arcigay. Questa tormentata vicenda associativa ha almeno due grandi meriti: uno è aver scoperchiato la melma di misoginia e lesbofobia di cui è ancora intriso lo stesso movimento Lgbt+ - basta dare un’occhiata a Facebook per rendersene conto -. L’altro, forse ancora più importante, è aver costretto le attiviste lesbiche italiane, che da anni erano appiattite quasi soltanto sulla lotta per i diritti civili insieme al resto del movimento Lgbt+, a discutere, prendere parola, e iniziare a capire cosa vogliono per il futuro. Magari non si riuscirà più a stare tutte insieme, ma, anche nella separazione, ci sono già ora molte nuove energie in azione.

© RIPRODUZIONE RISERVATA