24 marzo 2018 - 10:05

La Consulta sul caso Kyenge: «Calderoli si può processare»

La Corte Costituzionale accoglie il ricorso del tribunale. Il senatore leghista sotto accusa per le frasi contro l’allora ministro

di Fabio Paravisi

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È giusta l’«insindacabilità», cioè il fatto che un parlamentare non debba rispondere in tribunale delle proprie opinioni. Ma il principio «non può essere esteso sino a ricomprendere gli insulti», categoria nella quale rientrano i paragoni fra una senatrice e un orango. La puntualizzazione arriva dalla Corte Costituzionale, che ha accolto un ricorso proprio contro una deliberazione di insindacabilità deliberata dal Senato nei confronti di Roberto Calderoli. Il cui processo per le frasi contro Cecile Kyenge, arrivato tre anni fa alle richieste finali, potrà essere concluso.

Dall’inizio della vicenda sono passati quasi cinque anni e tre governi. Era appena iniziata la nuova legislatura e il 13 luglio 2013 il senatore leghista era salito sul palco della festa di partito a Treviglio. Davanti a 1.500 persone se l’era presa con l’allora ministro per l’Integrazione: «Amo gli animali, orsi e lupi com’è noto — aveva detto al microfono —, ma quando vedo le immagini della Kyenge non posso non pensare, anche se non dico che lo sia, alle sembianze di un orango». Tempo quattro giorni, e Calderoli era stato indagato dai pm di Bergamo Giancarlo Dettori e Maria Cristina Rota con l’ipotesi di diffamazione aggravata dall’odio razziale.

Calderoli si era poi scusato e aveva offerto un mazzo di fiori a Kyenge. Ma la vicenda era comunque approdata in tribunale e il processo era iniziato. Salvo poi bloccarsi il 16 settembre 2015 quando il Senato aveva votato con 126 voti favorevoli, 116 contrari e 10 astenuti «l’insindacabilità delle dichiarazioni di Calderoli in quanto opinioni espresse da un parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni». E quindi intoccabili.

Il Tribunale di Bergamo non era d’accordo e aveva sollevato il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato. E la Consulta ora gli ha dato ragione, accogliendo il ricorso. Prima di tutto perché, secondo i giudici, non spettava al Senato fare quella valutazione. La Consulta spiega infatti che quando le Camere sono chiamate a deliberare sulle opinioni dei loro componenti, devono valutare la «riconducibilità di dette opinioni alle funzioni parlamentari». Quindi, nello specifico, decidere se le frasi di Calderoli rientrassero nella sua attività politica. Ma poi non tocca ai parlamentari valutare se le dichiarazioni portino a qualche forma di responsabilità giuridica, e quindi «concretino la manifestazione del diritto di critica politica, di cui egli, al pari di qualsiasi altro soggetto, fruisce ai sensi dell’articolo 21 della Costituzione». Quella è una cosa che deve fare il giudice: «Sulla qualificazione giuridica del fatto storico», il Senato ha agito «invadendo un campo costituzionalmente riservato al potere giudiziario. Il tutto, fra l’altro, nel quadro di una non consentita scissione del concetto di insindacabilità» delle opinioni di un parlamentare, tra il «contenuto della opinione in sé» e «le finalità» di quelle dichiarazioni.

Infine i giudici entrano nel merito: «Per il loro tenore testuale», le frasi di Calderoli «non risultano riconducibili a opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari». La prerogativa parlamentare prevista dall’articolo 68 della Costituzione, insomma, «non può essere estesa sino a ricomprendere gli insulti - di cui è comunque discutibile la qualificazione come opinioni - solo perché collegati con le “battaglie” condotte da esponenti parlamentari». Ora bisognerà attendere la trasmissione degli atti e il tribunale potrà fissare la nuova udienza del processo.

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