Sri Lanka e Birmania, l'amnesia della storia

Le deflagrazioni della bomba politica che vede due premier contendersi il posto a capo del governo dello Sri Lanka sono ancora deboli sui media internazionali, anche se toccano un aspetto particolarmente delicato per tutti.

Non si tratta solo dello scontro, pure formidabile, tra chi vuole aprire l’economia soprattutto alla Cina (come l’ex presidente Mahinda Rajapaksa sconfitto nel 2015 e ora tornato nella veste di premier nominato) e chi vorrebbe diversificare i partner di mercato com’era fino a pochi mesi fa nelle intenzioni del Presidente in carica Maithripala Sirisena con un occhio di riguardo per la vicinissima India.

Lo scontro in atto all’interno della piccola Isola Paradiso è anche e soprattutto tra chi vuole rinvangare il passato e chi intende seppellirlo, ovvero gli orrori della guerra civile cominciata nel 1983 e conclusa manu militari nel 2009.

Soldato cingalese dello Sri Lanka di guardia a un cimitero di guerra dei Tamil

Soldato cingalese dello Sri Lanka di guardia a un cimitero di guerra dei Tamil

Dimenticare o ritirare fuori cio’ che di orrendo avvenne in tempi diversi e circostanze diverse della storia è un interrogativo che si pone ogni Paese dopo un radicale cambio di regime. In Asia è successo in Cambogia e in Nepal, in Indonesia e nelle Filippine con diversi esiti, e - più di recente – è successo in Birmania oltre che nello Sri Lanka di questi giorni, dove con l’ultima mossa presidenziale è stato licenziato d’un colpo il vecchio governo e il parlamento, un secondo cambio di regime nel giro di appena tre anni ma curiosamente con gli stessi principali protagonisti in ruoli alternati.

Molti sostengono che lasciando cicatrizzare le ferite create dai conflitti violenti senza ripulirle pacificando la mente di vittime e oppressori, non si potrà comunque evitare di farle sanguinare ancora o degenerare ulteriormente sotto la pelle di un’intera popolazione. Lo Sri Lanka era uscito da un incubo la cui memoria ancora fresca accomuna intere generazioni: i posti di blocco nelle città e in ogni punto strategico, le bombe e le rappresaglie, la vita di una nazione dai paesaggi incantevoli compromessa dalla paura, dalle repressioni e dal sospetto.

Prima, durante e per altri sei anni dopo la fine della guerriglia, Rajapaksa, il vero comandante in capo dell’esercito che nove anni fa sconfisse le “Tigri” tamil, aveva mantenuto proprio grazie al suo inflessibile avanzamento militare contro il nemico un potere pressoché assoluto. Nazionalista e buddhista con familiari stretti in ogni posto chiave, non ha potuto evitare pero’ che la ferita di quel conflitto con molte atrocità commesse da entrambe le parti si riaprisse grazie alla campagna elettorale di riconciliazione di un suo ex ministro e alleato divenuto temporaneamente suo principale nemico, l’attuale presidente Sirisena.

Il presidente dello Sri Lanka Sirisena e il suo neo-premier Rajapaksa

Il presidente dello Sri Lanka Sirisena e il suo neo-premier Rajapaksa

Ma dopo averla aperta, e aver promesso indagini imparziali sui crimini contro l’umanità commessi dai soldati di Rajapaksa, a elezione avvenuta il presidente Sirisena ha piano piano fatto marcia indietro tentando prima di ricicatrizzare la ferita, e ora di eradicarla perfino dalla memoria. Non ha altro significato la recente nomina a primo ministro del vincitore di quella guerra civile al posto del premier da lui scelto nel 2015, Ranil Wickremesinghe, un uomo senza il quale – va detto - probabilmente Sirisena non sarebbe nemmeno salito sulla poltrona che occupa.

I commentatori più attenti sostengono che si è trattato semplicemente di una mossa del presidente per garantirsi l’incolumità fisica e politica negli anni a venire (più avanti parleremo del presunto complotto attribuito al premier dimesso), abbandonando l’alleanza prioritaria con la vicina India e abbracciando assieme a Rajapaksa il nuovo potere emergente di Pechino. Per questo i crimini di guerra non sono più una priorità, e probabilmente non lo saranno per un certo tempo a venire. Il tempo di fare in modo che le ferite giungano annacquate nel sangue e nelle menti delle prossime generazioni.

Un'immagine di rifugiati Tamil fotografati nei campi alla fine della guerra civile nel 2009

Un'immagine di rifugiati Tamil fotografati nei campi alla fine della guerra civile nel 2009

Il conflitto tra militanti tamil e maggioranza cingalese costo’ la vita in meno di due anni a 40mila civili in gran parte dell’etnia che costituisce anche la base della popolazione del Tamil Nadu indiano confinante via mare. Alcuni erano simpatizzanti dei ribelli ma in gran parte si trattava di gente pacifica che viveva alla giornata e non sognava affatto il ritorno all’Eelam o terra originaria reclamata con le armi dalle “Tigri”. Ricordo qui le cifre delle vittime perché si tratta pressappoco dello stesso numero (ma nell’arco di 26 anni) calcolato al termine della ultima pulizia etnica nello stato dell’Arakan birmano contro gli islamici Rohingya, vicenda che il mondo ha seguito con ansia prima di abbandonarla per altre guerre e altri conflitti. 

Così, ad esempio, ci si è dimenticati che quei profughi sono ancora all’addiaccio e che i piani di rientro nei loro villaggi sono ancora oggetto di liti tra governo del Bangladesh e birmano.

Ma prima dell’esposizione al mondo del loro olocausto, la comunità internazionale aveva tranquillamente rimosso sui media e nelle sedi di dibattito le atrocità dei militari birmani ben precedenti e su più larga scala commesse durante la 50ennale dittatura. Il silenzio fu quasi un atto dovuto dopo che i generali“concessero” le elezioni democratiche stravinte dalla loro ex nemica Aung San Suu Kyi. Anzi, è stata proprio la Nobel della Pace a far passare tra i milioni di suoi supporter un piano di riconciliazione concordato coi militari, impedendo al suo stesso partito di accennare in dichiarazioni e scritti al periodo del regime. E lasciando che il maggiore responsabile degli ultimi anni di dittatura, il generale Tang Shwe si ritirasse – almeno apparentemente – dalla scena con tutti gli onori e i privilegi del rango.

Aung San Suu Kyi circondata da ufficiali dell'esercito birmano

Aung San Suu Kyi circondata da ufficiali dell'esercito birmano

E’ in questo contesto che Suu Kyi ha sostenuto i militari sia nella repressione dei Rohingya che di altri gruppi etnici armati. Ed è in questo contesto che ha deciso di far dimenticare le migliaia di prigionieri politici uccisi e torturati tra il ’62 e il 2010, le rappresaglie crudeli contro ogni villaggio sospettato di ospitare ribelli, che fossero Kachin, Shan, Wa, Karen, Chin, l’esproprio delle terre e il controllo capillare dei media.

Oggi nella “sua” Birmania centinaia di pubblicazioni si contendono il mercato editoriale in un clima di rinascita liberale, ma chi si occupa delle ferite aperte e dei conflitti ancora in corso finisce in carcere, come accaduto ai due giornalisti della Reuters in cella dal Natale scorso per aver rivelato alcune delle atrocità commesse contro i Rohingya e ad altri responsabili di violazioni di “segreti di Stato”. La differenza col passato regime è che non sono più previste torture per i detenuti dissidenti o i giornalisti, se non quelle psicologiche di farli sentire “nemici” del sistema democratico attuale e dell’intoccabile eroina Suu Kyi, apparente artefice di un cambiamento che lascia intatta la sostanza dei rapporti di forza stabiliti dai generali, basato sulla supremazia della razza Bamar o birmana su tutte le altre.

Le circostanze che portano a perdonare, a mettere una pietra sul passato, sono diverse perché è nella natura stessa di una circostanza presentarsi e manifestarsi quando i tempi sono maturi. I fantasmi dei conflitti non riescono a riaffiorare apertamente finché si manifestano soltanto negli incubi di un gruppo più o meno ristretto di persone che sono state vittime o parenti di vittime. Ma non di meno le memorie dei morti continuano ad aggirarsi nei luoghi dove avvennero atrocità e stermini, affidate alla memoria collettiva, una frequenza mentale comune a milioni di persone che hanno vissuto le stesse esperienze drammatiche sia sullo stesso che su fronti opposti.  

Prima di riaddentrarci nello Sri Lanka, vale la pena restare ancora un po’ in Birmania, o Myanmar come si definisce l’intera unione che comprende stati sottomessi al potere di Rangoon e Nayipidaw, la nuova capitale costruita dai generali. Infatti è proprio nel genocidio dei Rohingya oggi passato in seconda linea che troviamo uno degli esempi più calzanti delle conseguenze di una ferita non curata e lasciata cicatrizzare sottopelle per decenni.

L'esodo dei Rohingya nel 2017

L'esodo dei Rohingya nel 2017

Gli ultimi due anni di “pulizia etnica” sono in fondo ben poca cosa rispetto alla persecuzione che è avvenuta a più riprese, a partire probabilmente dai tempi dei regnanti buddhisti dell’Arakan spodestati a fine ‘700 dalle truppe dei re Baman o birmani, anche loro buddhisti ma di altra tradizione, che usavano gli immigrati dall’attuale Bangladesh come forza lavoro controllandone pero’ l’accesso. Altri pogrom avvennero durante la seconda guerra mondiale quando giapponesi e birmani cacciarono decine di migliaia di Rohingya pressappoco con gli stessi metodi degli ultimi anni. Ma gran parte dei Rohingya ha continuato a entrare in Arakan anche prima, durante e dopo l’inizio della dittatura di Ne Win che li escluse dall’esercito e impose numerose restrizioni senza pero’ controllarne il flusso e la crescita demografica.

La loro consistente presenza divenne pretesto di un’altra rivolta anti-musulmana all’indomani della distruzione dei Buddha di Bamyan in Afghanistan nel 2001, ma l’esercito non intervenne in maniera determinante come nel 2012, quando si è ripetuto un incidente già avvenuto quasi negli stessi termini 15 anni prima, lo stupro e l’uccisione di una ragazza buddhista per il quale vennero accusati i “kalar”, termine dispregiativo per i Rohingya. O come avvenne in ben più vasta scala nell’agosto 2017 con il pretesto degli assalti terroristici nell’Arakan ai confini del Bangladesh da parte di commando dell’Esercito per la salvezza dei Rohingya o Arsa.

Sembra scontato partire dal presupposto che l’esercito birmano conoscesse bene a che punto fosse la pentola in ebollizione in uno Stato importante, strategicamente ed economicamente decisivo per la Cina che cercava accessi marittimi sull’Oceano indiano e diritti sul gas naturale di cui è ricca la costa  arakanese. Ma il conflitto coi Rohingya è stato lasciato maturare con apparente studiata strategia soprattutto dai militari che senza sporcarsi le mani quando avevano in mano il potere assoluto hanno passato la patata bollente a un governo “democratico” dove i ministri della Difesa, delle Frontiere e dell’Interno sono soldati come lo sono il 25 per cento di deputati e senatori. La mancanza di azione preventiva e incruenta ha messo oggi Suu Kyi di fronte a un fenomeno ormai ingoverabile senza un intervento dell'esercito divenuto suo alleato. Va da sé la forma dell’intervento, a questo punto, poteva solo essere armata.

Così è avvenuto con varianti locali anche nello Sri Lanka, terra di passaggio del buddhismo dall’India alla Birmania e poi al resto del sudest asiatico, dove i tamil perlopiù induisti posso essere sostituiti ai Rohingya nel ruolo delle vittime e la lunghezza della guerra puo’ addebitarsi alla mancanza di volontà dell’esercito di risolvere il problema concedendo alla minoranza gli stessi diritti dei cingalesi. 

colombo rally UNPDa qui le ultime notizie dall’isola che riassumero’ partendo dalla decisione di una Corte di Colombo di minacciare arresti di massa tra i militanti del partito di maggioranza se ieri avessero provocato incidenti durante la vasta protesta (VEDI FOTO) contro la nomina del nuovo primo ministro ed ex presidente Rajapaksa. Ma una vittima e diversi feriti domenica scorsa davanti al ministero del Tesoro erano state solo le avvisaglie di una crisi che potrebbe avere esiti ancora imprevedibili. Sullo sfondo, il presunto complotto per assassinare l’attuale capo dello Stato Sirisena da parte del suo ex uomo di fiducia e premier Ranil Wickremesinghe.

Tra il presidente Sirisena e il primo ministro le cose non andavano bene fin dall’inizio del nuovo governo ma i rapporti sono peggiorati nell’ultimo anno e mezzo. Specialmente da quando il presidente aveva messo il veto ad alcune delle riforme economiche marcatamente anti-cinesi introdotte dal premier da lui nominato nel 2015.

Come già detto, lo strappo forse decisivo è stata pero’ la decisione di Sirisena di opporsi alle indagini sui responsabili militari delle violazioni dei diritti umani contro la popolazione civile durante la lunga guerra civile tra esercito e Tigri Tamil diretta col pugno duro da Rajapaksa. Proprio a lui Sirisena tolse la presidenza col voto di tre anni fa accusandolo in campagna elettorale di corruzione e nepotismo oltre che di atrocità e repressioni. Ma ora ha stretto a sorpresa con il suo ancora potente predecessore un patto di sopravvivenza politica, prima che di protezione personale dalle pallottole dei nemici interni che secondo lui vogliono ucciderlo. Defenestrando il suo ex uomo di fiducia, Sirisena accetta infatti di farsi proteggere in tutti i sensi dall’uomo del quale era stato compagno di partito, ministro e poi nemico acerrimo, prima dell’ulteriore svolta di venerdì scorso.

E’ stato per facilitare l’incarico di Rajapaksa ancora circondato da vasta popolarità per la sua vittoria sulle “Tigri” ma osteggiato dalla maggioranza, che il presidente ha sciolto il Parlamento. Il portavoce ha detto di ritenere ancora legittimo l’attuale governo di Wickremesinghe, anche se Rajapaksa ha già giurato e convocato il corpo diplomatico internazionale per riassicurarlo sulle sue intenzioni di non cercare vendetta. 

Così l’isola paradiso è comunque governata di fatto in queste ore da due primi ministri dei quali uno in carica che non vuole lasciare la sua residenza a costo di uno scontro. Entrambi sembrano intenzionati a non cedere ma è ancora poco chiaro come si muoveranno nelle prossime ore i partner di questa inedita alleanza.

Sirisena ha parlato alla nazione a reti unificate per spiegare ai cittadini le sue scelte che preoccupano non poco la vicina India vistasi ri-abbandonata dopo un periodo di relazioni proficue, nonché gli Stati Uniti che hanno chiesto di ripristinare al più presto il Parlamento. Ha puntato soprattutto il dito sul complotto ordito a suo dire dal premier dimesso senza accennare ai problemi dell’egemonia della Cina che sull’ìsola ha vasti interessi finora messi in crisi dalla politica di apertura a occidente del gabinetto appena licenziato.

Sul merito delle accuse il Presidente ha detto che una persona interrogata dagli investigatori (un informatore della polizia) aveva rivelato il nome di un ministro e un ex segretario della Difesa coinvolti in un presunto piano per assassinarlo. "Questa informazione – ha spiegato - contiene una serie di dettagli finora nascosti al pubblico", ma non ha rivelato né il nome del ministro né i particolari che lo convincono della credibilità di questa presunta trama.

Il premier Wickremesinghe parla ai supporter dopo il siluramento

Il premier Wickremesinghe parla ai supporter dopo il siluramento

Di complotto per assassinare il presidente avevano già parlato nelle settimane scorse i suoi sostenitori puntando il dito proprio contro Wickremesinghe e un suo collega di Gabinetto, oltre all'ex comandante dell'esercito Sarath Fonseka. Ma il premier silurato denuncia come incostituzionale il suo licenziamento e potrebbe facilmente dimostrare il sostegno della maggioranza parlamentare se le Camere non fossero state sciolte. Da qui l’opinione che la mossa del presidente sia stato uno stratagemma per far raccogliere a Rajapaksa – con quali incentivi o minacce non è chiaro – il consenso di almeno altri 13 deputati della maggioranza prima di riaprire il Parlamento il 16 novembre come previsto e andare a un voto di fiducia.

Per dare un’idea dei possibili scenari, Arjuna Ranatunga, ministro del petrolio del Gabinetto destituito, ha detto che subito dopo l’annuncio presidenziale una delle sue guardie di sicurezza ha dovuto aprire il fuoco ad altezza d’uomo contro i sostenitori di Rajapaksa che volevano aggredirlo e sono entrati di forza nei locali del ministero nella capitale Colombo, lasciando sul terreno un morto e diversi feriti. Con metodi ancora non così violenti i deputati dell'opposizione hanno anche chiesto a Wickremesinghe di lasciare la sua residenza ufficiale pena lo sgombero forzato e gli sono già state tolte le auto oltre a 60 su 70 guardie di sicurezza. Nel frattempo nelle strade attorno al Palazzo chiamato Temple trees continuano a radunarsi molti sostenitori del premier dimesso sventolando bandiere di partito, compresi i monaci buddisti che pregano per lui.

La vera battaglia sembra combattersi pero’ dietro le quinte della diplomazia internazionale. La Cina ha già fatto capire che sosterrà l’esecutivo del premier appena eletto, ben sapendo che la sua figura è decisamente sgradita all’occidente per il ruolo assunto nel coprire i massacri dei civili durante la guerra alle Tigri. La Cina è stato anche il Paese decisamente meno critico verso la Birmania accusata del genocidio Rohingya. Ma probabilmente altri governi faranno buon viso e cattivo gioco in nome di interessi economici e strategici nell’Oceano indiano.

Ad accomunare ulteriormente la situazione dello Sri Lanka a quella del Myanmar è la supremazia delle forze armate su ogni altra istituzione nazionale a cominciare daii governi. Esercito, Marina, Aviazione sono coinvolte nell’Isola a tutti i livelli dell'amministrazione civile soprattutto del Nord, e tutti i progetti di sviluppo devono essere approvati dagli ufficiali competenti. L'International Crisis Group ha sostenuto che "invece di lasciare posto a un processo di sviluppo inclusivo e responsabile, l'esercito sta aumentando il suo ruolo economico, controllando la terra e apparentemente affermandosi come presenza permanente e occupante".

Parole che possono valere per la Birmania, ma assumono un significato ben più vasto in un mondo dove la fattura stessa degli armamenti assegna ai vertici militari una consistente fetta dei relativi guadagni. Sono loro infatti i principali committenti anche se il budget è deciso dai governi, facili da convincere con lo spauracchio di un qualsiasi nemico scelto – se non creato - secondo le circostanze della storia.

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