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Garna: «L’archeologia salva le persone»

Lo studioso bellunese è impegnato in Iraq nella formazione dei giovani locali

di Fabrizio Ruffini
2 minuti di lettura
BELLUNO . Archeologia e impegno civile: Giancarlo Garna, eletto Person of the year 2017 dall’Osservatorio internazionale sulle archeomafie, parla del suo lavoro tra l’Italia e il Kurdistan Iracheno e della piaga del traffico internazionale di antichità che mina passato e presente dei popoli mediorientali.

Garna, bellunese di nascita ma padovano d’adozione, oltre all’attività di archeologo organizza spesso incontri nelle scuole.

Com’è diventato l’archeologo dell’anno? «È stata una cosa inaspettata e ora mi sento un po’ spiazzato dal clamore mediatico e dai successivi riconoscimenti che ho ricevuto. Direi che nasce tutto dal mio lavoro sul campo, dalla salvaguardia dei siti sul territorio, Mesopotamia in primis».

Di cosa si occupa in Iraq? «Il progetto “Terra di Ninive” che sto seguendo da oramai cinque anni per l’Università di Udine punta a catalogare, studiare e salvaguardare i siti presenti su una vasta area a nord di Mosul, nel Kurdistan Iracheno. La missione, diretta da Daniele Morandi, si basa su una collaborazione con il Cnr di Roma e a breve potremo pubblicare i risultati di questi primi cinque anni di lavori che si sono conclusi in ottobre. È un’area ricchissima di storia da scoprire e c’è ancora tanto lavoro da fare per restituire alla luce il più possibile questo immenso tesoro».

Tornerà in Iraq, quindi? «L’obiettivo è di prolungare il progetto per altri cinque anni e arrivare alla costituzione di un parco archeologico creato con fondi italiani e gestito principalmente dai locali, che nel frattempo stiamo formando a questo scopo».

In che senso state formando i locali? «È in atto un genocidio culturale in quell’area del mondo, cancellare il passato vuol dire cancellare un popolo. Anche i nazisti facevano lo stesso con le popolazioni che conquistavano. Con il nostro lavoro salviamo le persone oltre alle cose, per questo ci occupiamo di formare dei giovani archeologi locali perché possano gestire il parco. Sono principalmente studenti dell’Università di Bagdad o di campus esteri che tornano per ridare vita al loro Paese. Sono convinto che esista un ruolo sociale dell’archeologo e che sia fondamentale combattere il più possibile la distruzione e il saccheggio delle antichità di quei paesi. Solo sviluppando una sensibilità particolare verso il proprio passato da parte delle popolazioni del luogo ce la si può fare».

Quanto sono pericolose le archeomafie in questo scenario? «L’Unesco e l’Interpol valutano in sette miliardi di euro il giro d’affari dei trafficanti di reperti archeologici. È un’organizzazione enorme che necessita di una logistica fatta di uomini, mezzi pesanti, navi, contatti nelle dogane e nei porti, magazzini, certificati falsi. La stessa mafia italiana è interessata a questo business e il nostro Paese è interessato dal fenomeno sia per i furti che per la mediazione tra paesi sorgente e compratori. A suo tempo già il padre di Matteo Messina Denaro si occupò molto di furti di opere d’arte e ritrovamenti archeologici con la speranza di poterli usare come merce di scambio con lo Stato per modificare o eliminare il 41bis. È un mercato grigio, perché spesso si riesce ad ottenere i documenti per vendere alla luce del sole un reperto rubato, e freddo perché la refurtiva può rimanere anni chiusa in magazzini prima di essere venduta».

Com’è cambiata la situazione in Iraq e in Siria con l’avvento del sedicente Stato Islamico? «Dal 2012 a oggi il traffico si è intensificato tantissimo, spesso vediamo gli uomini dell’Isis distruggere opere d’arte e monumenti ma è tutta propaganda, per un oggetto che distruggono davanti alla telecamera ce ne sono cento venduti. Per fortuna in Italia siamo all’avanguardia nella lotta a questo fenomeno e siamo presi a modello. Recentemente la Procura italiana ha indagato su alcuni reperti rubati in Medio Oriente dall’Isis, trasportati a Gioia Tauro da navi della Mafia cinese e diretti a quella italiana per essere venduti. Davvero un concentrato internazionale di criminalità».

Lei e la sua squadra avete mai vissuto dei momenti di pericolo? «Nel 2014 la Farnesina ci invitò a lasciare i siti degli scavi per via dell’avanzata dell’Isis in quella zona, tornammo in Italia ma fortunatamente gli jihadisti arrivarono solo a quindici chilometri dalla nostra zona e il nostro lavoro fu lasciato com’era. Ci andò bene ma è pur sempre una zona di guerra e bisogna sempre stare attenti, per fortuna abbiamo un ottimo rapporto con i Kurdi che ci hanno sempre difesi in situazioni di pericolo».

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