Chi ha paura dello ius soli

diFrancesco Caringella

E’ di queste ore la notizia dello sciopero della fame a favore del disegno di legge sullo “ius soli”. All’iniziativa dal sapore pannelliano hanno aderito anche parlamentari e uomini di cultura della nostra meravigliosa Puglia, terra dalla millenaria storia di integrazione, di contaminazioni e di condivisione. Perché tutte queste polemiche e divisioni, dai toni talora apocalittici, sulla legge arenata in Parlamento nello scorcio finale di questa tormentata legislatura?

Al di là delle bandiere ideologiche e delle strumentalizzazioni politiche, la ragione è una, una sola. E’ dentro di noi, tentacolare, misteriosa, inconfessabile. Si chiama “paura”. Paura dell’altro, dello sconosciuto, del mistero, di chi proviene da mondi lontani. Temiamo di essere conquistati dagli stranieri, di perdere l’italianità che ci nutre il sangue, di allevare pericolosi criminali e spietati terroristi. E’ la xenofobia, la paura dello straniero, che rischia di degenerare in xenomisia, odio per l’ “extraneus”. Quest’angoscia è la conseguenza e, prima ancora, lo scopo del terrorismo islamista che ci induce a interrogarci sul passato e a reinventare il futuro. Stiamo scoprendo che il nostro territorio non è una zona franca, ma un potenziale obiettivo di attentati atroci e sanguinari, come quelli di Parigi, Nizza. Berlino. Londra, Barcellona e Manchester. Le paure, vere e immaginarie ci spingono a blindarci, rinchiudendoci nel nostro “Fort Apache” e affidando le difese dei nostri valori ai muri, alla sordità, agli eserciti, alle polizie.

La paura è però, da sempre, una pessima chiave di lettura della realtà e, soprattutto, dell’umanità. Se e’ vero, per dirla con Nietzsche, che “non esistono i fatti, ma le interpretazioni”, e’ indubbio che un’interpretazione guidata dalle pulsioni emotive partorisce fantasmi. Questa spinta falsificante rischia di farci vedere negli stranieri un pericolo per la nostra sopravvivenza e nell’Islam quella malattia di cui parla Abdelwahab Meddeb o quella violenza primordiale e conquistatrice vagheggiata da Adonis. Di qui l’idea del mondo musulmano come male assoluto da estirpare e degli stranieri come nemici da combattere. Un simile approccio cambierebbe in peggio il nostro modo di essere, condannandoci a una guerra senza fine e, quindi, alla sconfitta. Sarebbe la negazione stessa del concetto di cultura, che da sempre è “cultivation”, apertura verso l’altro, voglia di conoscenza, nutrimento reciproco, desiderio di contaminazione.

La pancia non ci fa capire che la legge sullo ius soli è non solo giusta, ma necessaria per superare i limiti storici di una legislazione basata sullo “ius sanguinis” che, vagheggiando una purezza razziale incompatibile con la sfida della globalizzazione, attribuisce ancora la cittadinanza sulla base del solo colore del sangue e nega rilevanza alle scelte di vita, ai valori e ai sentimenti. La legge in discussione, perfettibile come tutte le cose umane, è una normativa equilibrata, che, mostrando più cautela della legislazione statunitense, non allarga in mondo incondizionato gli spazi per l’accesso alla nostra cittadinanza. Si pensi allo ius colturae, che trasforma i minori stranieri in italiani solo a patto che abbiano fatto ingresso nel territorio italiano entro i dodici anni e frequentino le nostre scuole da almeno cinque anni. Quanto allo ius soli- ammesso oggi solo per gli apolidi o i figli di ignoti- , il testo in gestazione deroga al principio dello ius sanguinis (secondo cui è cittadino solo chi sia figlio di un cittadino italiano), solo se si tratti di soggetti nati in Italia che abbiano almeno un genitore munito del permesso di soggiorno nell’Unione Europea.

E torniamo alla paura. Il rifiuto della legge impedirebbe a migliaia di ragazzi stranieri, che “si sentono” italiani di “essere” italiani, acquisendo quel senso di appartenenza che sarebbe forza e calore ai diritti di cui sono già titolari come legittimi abitanti del Paese più bello del mondo. Si tratta di soggetti che risiedono regolarmente,sono registrati all’anagrafe, hanno un dottore, vanno a scuola, sono inseriti in famiglie che pagano tasse e contributi, nell’ambito di quell’esercito di cinque milioni di immigrati che popolano anche la terra degli ulivi e dei trulli. In definitiva, il problema non è se questi soggetti debbano risiedere in Italia ma debbano viverci da stranieri e da italiani, titolari in quest’ultimo caso dei diritti ma anche dei doveri collegati alla cittadinanza. Proprio la paura, oltre che la ragione e il sentimento, dovrebbe spingerci a percorrere la via dell’integrazione. La minaccia terrorista è figlia della separazione e può essere sconfitta solo dal dialogo, dalla civiltà e dall’incontro. I muri, fisici e giuridici, sono scelte psicologicamente rassicuranti ma alla lunga suicide.

Il riconoscimento controllato della cittadinanza è misura non solo eticamente giusta ma anche utile, di contrasto al terrorismo e alla criminalità. In un’epoca di denatalità senza precedenti, l’acquisto di nuovi cittadini italiani, dai tratti somatici e multiformi e variegati, è un fattore di ricchezza e di crescita. Il popolo italiano è meraviglioso proprio perché frutto di un numero indicibile di dominazioni, incroci e contaminazioni, testimonianza unica di quel meraviglio miscuglio di diversità che, come ricorda Hannah Arendt, è l’umanità.

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7 ottobre 2017 2017 ( modifica il 7 ottobre 2017 2017 | 18:21)