Perché Napoli si sta trasformando in una metropoli classista

diMassimiliano Virgilio

Non molti anni fa ad alcuni di noi sui quaranta, forse a questo punto direi in maniera improvvida, Napoli ci è apparsa come una scelta di vita felice. Ci è parsa tale nonostante la scarsità di lavoro, di servizi, la pervasività della camorra, i rifiuti, la miseria. Anzi. A maggior ragione per tutto questo.

Di sicuro non nutrivamo la presunzione di rivoluzionare lo stato delle cose, ma almeno speravamo di contribuire a un miglioramento del clima generale anche grazie alla nostra intelligenza, al nostro perenne agitarci, alla nostra presenza e al fatto che — risolto il problema fondamentale del pane — non c’era bisogno di aspirare a chissà quale carriera altrove. Meglio provare a combinare qualcosa di buono qui. Anche perché, forse un po’ obnubilati dal Pasolini pre-abiura, lo ammetto, Napoli continuava a esercitare su di noi il suo fascino, la sua magia. Insomma, senza dircelo eravamo ricaduti nell’idea romantica e un po’ agée di essere come i Tuareg, immaginando che a Partenope esistesse più che altrove uno spazio per la nostra presunta irriducibilità ai canoni del consumismo imperante.

Forse è questo che più di tutto oggi delude coloro che – in particolare, tra di noi sui quaranta – hanno sostenuto il duplice mandato a sindaco di Luigi de Magistris: che quello spazio crescesse e diventasse più ampio, e che al contempo si nutrisse di un pragmatismo in grado di fornire risposte moderne ai problemi antichi della città.

Con uno sguardo sincero ai più deboli e agli esclusi, ma anche ai suoi tanti giovani e meno giovani di estrazione borghese, per certi versi esclusi alla stessa maniera dei primi. Servizi e cultura entro la cornice del Pubblico – questo chiedevamo – senza farne totem ideologici ma ben consapevoli, come sosteneva Don Milani, «che non si fanno parti eguali tra diseguali».

Invece, dopo oltre sei anni trascorsi ad ascoltare il ritornello della mancanza di risorse (senza che contro questa mancanza si riuscisse ad attivare risposte efficaci) e le più svariate retoriche sui beni comuni, bisogna ammettere che Napoli si è trasformata in una città classista come mai avremmo immaginato. E che le disuguaglianze, invece di essersi ridotte, sono aumentate.

Sì, Napoli è una città classista. Perché oggi, ad esempio, ai suoi cittadini è negata la forma prima della democrazia in una grande metropoli, quella della mobilità. Frantumata sotto i colpi di gestioni scellerate e di un progetto serio e credibile di rilancio. Inoltre, Napoli è una città classista perché in mancanza di un degno trasporto pubblico costringe i suoi cittadini, soprattutto delle periferie, a usare mezzi privati che dovremmo prima essere in grado di acquistare, poi di assicurare e infine di parcheggiare in costose strisce blu, cui spesso si aggiunge la gabella tipicamente locale del parcheggiatore abusivo. E quando parcheggio non c’è, bisogna nascondere dai ladri quei mezzi privati in garage che si arricchiscono come petrolieri in virtù delle tariffe che ci applicano e degne del costo della vita nel Principato di Monaco. Se poi il malcapitato cittadino cerca di cavarsela alla buona — fuori dalle strisce e dalla legge, insomma — ecco che le solerti Istituzioni cittadine incapaci di garantirci il benché minimo diritto (comportandosi dunque illegalmente) si vestono di autorità e spediscono i vigili a multarci e a seppellirci di ganasce.

Naturalmente non è solo la questione della mobilità a fare di Napoli una città classista, dove tutto si compra e dove o hai i soldi per permetterti di sfangarla o sei un cittadino di serie B.

Napoli è una città classista perché non si è dotata in questi anni di politiche culturali e giovanili nutrite da una visione che non fosse, da un lato, quella degli eventi (spesso a pagamento), dall’altro lasciando al volontarismo di gruppi e associazioni l’incombenza di provvedere a un quadro di proposte gratuite che, per forza di cose, è finito per essere povero e disorganico. Napoli è una città classista, perché a un giovane studente chiede trenta euro per entrare a teatro, ma poi al botteghino l’unica coda è quella per gli accrediti gratuiti, composta da «gente dell’ambiente», cioè dagli unici che probabilmente potevano permettersi di acquistare il biglietto.

Napoli è una città classista, perché ogni giorno vieta a tantissimi suoi giovani, soprattutto ai meno abbienti, di usare le biblioteche comunali di cui disporremmo. Spesso a causa di pessime infrastrutture, certo, ma anche per la mancanza di personale che costringe a chiudere a orari assurdi: abitudine lontana anni luce da qualsiasi città europea. Meglio che i nostri giovani si arrangino a studiare in un caffè o in una postazione di coworking. Sempre a pagamento, naturalmente.

Napoli è una città classista perché oggi, se hai la sfortuna di nascere o di acquisire una disabilità, puoi permetterti una vita dignitosa solo se qualcuno dei tuoi cari è in grado di pagarti quei servizi che le Istituzioni non ti garantiscono. Per tutti gli altri, invece, c’è il deserto.

Napoli è una città classista, perché ha pochi nidi pubblici e in molte scuole elementari e medie quasi ogni venerdì c’è l’immancabile riunione sindacale, mentre chi può permettersi di pagare la retta della scuola privata nemmeno sa che esistono certi problemi. Per non parlare della refezione scolastica che non parte e che quando parte è già Natale.

Napoli è una città classista, perché punta sul turismo per generare un po’ di reddito, ma non ha una risposta per l’aumento degli affitti in centro e non si preoccupa di aumentare il livello dei servizi per coloro che costringe a trasferirsi in periferia, da un lato si creano le zone a traffico limitato e dall’altro non ci si accorge di quelle, sempre più vaste, a cittadinanza limitata.

Mi fermo qui. Anche perché, lo diranno in molti, Napoli è una città classista né più né meno delle altre grandi città occidentali e che il classismo, così come la gentrificazione, è lo spirito dei tempi. Forse è così, eppure se ripensassimo al sistema di trasporti pubblici che talvolta ci capita di ammirare in giro per l’Europa, o a quello bibliotecario e dell’istruzione, ci renderemmo conto che non lo è affatto alla stessa maniera. È la qualità dei servizi e dei diritti di cui godono i cittadini, soprattutto i più deboli, a stabilire se in quel luogo c’è o non c’è classismo, non bastano le professioni di fede in loro favore di chi governa. Con l’aggravante, per noi sui quaranta che siamo rimasti in questa città, di esserci illusi che sarebbe potuta andare diversamente. E invece oggi, nonostante le parole spese, ci scopriamo uguali se non peggiori degli altri.

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13 novembre 2017 2017 ( modifica il 1 settembre 2018 2018 | 09:01)