Veneto, 21 ottobre 2017 - 20:58

Referendum, quattro milioni al voto per l’autonomia. La sfida del quorum

La consultazione si gioca sull’affluenza: urne aperte dalle 7 alle 23

shadow

VENEZIA A sei mesi dall’indizione, è arrivato il giorno della verità per il referendum autonomista del Veneto. La campagna elettorale è durata anni, iniziata ben prima della legislatura, con continui bracci di ferro tra il Veneto e il governo. E come in una matrioska, più di recente, anche il braccio diferro tra la zona montana e palazzo Balbi ha dato vita ad una consultazione di stampo federalista e oggi in provincia di Belluno gli elettori avranno al seggio due schede, una azzurrina per la consultazione veneta e l’altra rosa per dire se vogliono che lo Stato e la Regione accordino alla Provincia maggiore autonomia.

La legge regionale

La data nella quale la vicenda referendaria del Veneto inizia è il 19 giugno 2014, quando il consiglio Regionale approva la legge sul referendum consultivo sull’autonomia del Veneto. Due mesi dopo il governo la impugna davanti alla Corte Costituzionale contestando i cinque quesiti: «Vuoi che la Regione del Veneto diventi una regione a statuto speciale?»; «Vuoi che una percentuale non inferiore all’ottanta per cento dei tributi pagati annualmente dai cittadini veneti all’amministrazione centrale venga utilizzata nel territorio regionale in termini di beni e servizi?»; «Vuoi che la Regione mantenga almeno l’ottanta per cento dei tributi riscossi nel territorio regionale?»; «Vuoi che il gettito derivante dalle fonti di finanziamento della Regione non sia soggetto a vincoli di destinazione?» e «Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?».

La Corte costituzionale

La Corte a giugno del 2015 respinse i primi quattro come incostituzionali e ammise l’ultimo, quello sul quale oggi sono invitati ad esprimersi 4.068.577 elettori, 330mila dei quali residenti all’estero. La domanda richiama la dicitura del terzo comma dell’ articolo 116 della Costituzione, che prevede che «Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» possano essere attribuite alle Regioni a statuto ordinario «con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali» mentre le materie per le quali è possibile chiedere una gestione autonoma regionale sono elencate dall’articolo 117 della Costituzione. L’elenco è lungo (rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale) e l’idea di Palazzo Balbi è quella di chiederle tutte al governo.

L’articolo 56

Anzi, il progetto di legge e la base dell’eventuale negoziato col governo in caso di vittoria del sì e di superamento del quorum è praticamente già scritto, si tratta di 56 articoli che elencano con dovizia di dettagli come e cosa il Veneto vuole far da sé e sono contenuti nell’allegato alla delibera di giunta 315 del 15 marzo 2016. L’ultimo articolo, il 56, parla dell’attribuzione delle risorse ai sensi dell’articolo 119 della Costituzione: «Spettano complessivamente alla Regione, oltre alle singole devoluzioni di gettiti per specifiche funzioni indicate negli articoli precedenti e agli attuali tributi propri, le seguenti quote di compartecipazione ai tributi erariali riscossi nel territorio della Regione stessa: 1) nove decimi del gettito dell’Irpef; 2) nove decimi del gettito dell’Ires; 4) nove decimi del gettito dell’imposta sul valore aggiunto». È la sfida al residuo fiscale, la quota di tasse che aziende e residenti veneti versano e che non tornano sul territorio, terreno sul quale si è giocata la parte più accesa della campagna elettorale.

La consultazione

Una consultazione per molti versi anomala. E non solo perché ai 4.739 seggi (dei quali 47 negli ospedali) che ieri si sono insediati, oggi gli elettori troveranno matite copiative blu. O rosse. Perché non sarà necessario mostrare agli scrutatori la tessera elettorale e invece del solito timbro sarà rilasciata una ricevuta di voto col gonfalone del Veneto. Ma anche perché non c’è un vero contraddittorio tra favorevoli e contrari al federalismo. La Regione è tutta schierata per il Sì, come la maggior parte dei partiti e non esiste un fronte del No. Si è formato invece un agguerrito comitato per astensione tra sinistra Pd, Mdp e Sinistra Italiana e parte del governo. Più che sull’esito - scontato - la partita si gioca quindi sull’affluenza. Il presidente Luca Zaia ha più volte ripetuto che se un veneto su due starà a casa, cestinerà tutto e non avvierà la trattativa con lo Stato. Una partita politica sulla quale pesa un dato tecnico, quei 330mila elettori veneti all’estero che non possono votare fuori sede e che costituiscono l’8,11% degli aventi diritto. E per considerare valido l’esito, è necessario che si rechino alle urne la metà più uno degli aventi diritto, con una soglia del quorum di 2.034.289 votanti. Il dato politico è che la Lega ha voluto la consultazione immaginando un plebiscito, per poter andare a trattare l’autonomia col la forza del voto popolare alle spalle. Secondo i politologi, per poter parlare di un successo sarebbe necessaria un’affluenza del 55-60%.

Le conseguenze

Il referendum è consultivo e domani, a urne chiuse e spoglio fatto, non cambierà niente nell’immediato. Per arrivare all’autonomia, Regione e Stato devono aprire infatti la ormai celebre trattativa. In teoria, anche in caso di mancato quorum la Regione potrebbe avviare il negoziato con lo Stato. Ed è su questo che si è giocata l’altra parte della campagna referendaria, con mezzo governo a sostenere l’inutilità della consultazione, tanto che quattro giorni fa, il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini ha siglato col presidente del Consiglio Paolo Gentiloni una dichiarazione d’intenti per dare avvio alla contrattazione.

I costi

Un referendum anomalo, infine, perché per la prima volta è stato organizzato (con la collaborazione delle Prefetture accordata dal Viminale) e pagato dalla Regione con 16 milioni di euro da cima a fondo: 4,5 milioni di schede e altrettante ricevute, 62.555 manifesti, 10.500 verbali, 5.213 urne e kit, 31mila matite copiative e due milioni di straordinari, indennità e vitto ai militari che presidiano i seggi.

© RIPRODUZIONE RISERVATA