9 gennaio 2018 - 09:06

Scuola, lo sciopero delle maestre. Villalta: «L’esperienza vale più dei libri»

Gian Mario Villalta, classe 1959, insegnante, poeta e scrittore, direttore del festival letterario «Pordenonelegge»: «Oggi insegnare è un lavoro diverso»

di Giovanni Viafora

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Ma lei se la ricorda la sua maestra? «E come no! La signora Marcella Antonini. Mora, poi ingrigita con la vita. Gentile, ma fermissima. Veniva dalla città, Pordenone, ed era pure di buona società. Si figuri in una classe come la nostra, di paese (Visinale di Pasiano, ndr). Erano i primi anni Sessanta: a farla da padrona era l’ottusità di certi ragazzi di campagna. Pensi che in prima elementare noi parlavamo solo dialetto. Diciamo che spesso aveva momenti di esasperazione e stanchezza...».

Non le chiedo neanche se la maestra Antonini avesse la laurea... «Certo che no. Ma era una persona per bene. Il punto è che all’epoca quello era un altro mestiere: al maestro era chiesto di insegnare i rudimenti del leggere e dello scrivere e di informare i discepoli sulle cose della vita. Adesso è un altro mondo».

Cioè? «Mia figlia ha appena finito la scuola elementare. I ragazzi oggi sono molto più svegli. Sono bombardati dalle informazioni. Anzi, ne hanno fin troppe. Per cui il lavoro del maestro è diventato quello di orientare gli alunni in questo flusso. Facendo capire ai ragazzi la loro posizione nel mondo. Anche molto presto. Le assicuro che oggi imparano cinquanta volte quello che imparavamo noi».

Senza citare annessi e connessi: se la maestra Antonini si fosse confrontata con certe chat collettive su WhatsApp maestri-genitori... «Adesso i papà e le mamme sono molto più attenti, alcuni anche troppo. Ingeriscono, vogliono decidere. Pensano di sapere, quando invece la loro è più che altro presunzione».

Gian Mario Villalta, classe 1959 scrittore ed insegnante di liceo
Gian Mario Villalta, classe 1959 scrittore ed insegnante di liceo

E la maestra di sua figlia, invece, era laureata? «Non mi sono mai informato. Perché sin dall’inizio il rapporto è stato sulle cose, non sul titolo di studio. Insomma, se avessi riscontrato delle lacune o delle carenze me lo sarei chiesto. Ma non è successo. Ho questa idea: non posso pensare che sia qualche anno di Scienze della Formazione a cambiare la realtà psichica del maestro o la sua capacità di fare il lavoro. È l’esperienza dell’insegnamento a creare l’insegnante. Oltretutto, se vogliamo essere più realisti del re: una laurea in Scienze della Formazione cambia davvero il mondo? Ti fa dire che una persona che fa da dieci anni questo mestiere sia peggio di una che ha solo un titolo di studio?».

Le maestre «laureate» opporrebbero questo: che il Paese non ha bisogno di «maestri per caso»... «Non conosco le ragioni tecniche alla base della decisione del Consiglio di Stato. Sono d’accordo però che l’intervento doveva valere pro futuro. Mi chiedo: questa necessità di imporre tali criteri è derivata dal riscontro di gravi carenze o è dettata da altro? Perché se è dettata da altro allora è un’ingiustizia. Se fino ad oggi andava bene che questa gente insegnasse, adesso all’improvviso cosa si fa? E perché chi non ha la laurea può comunque fare supplenze?».

C’è un passo di una vecchia commedia Ottocentesca («La Maestrina» di Luigi Morandi) in cui si diceva che le maestre dovevano avere solo due qualità: «Religione e morale, morale e religione». Oggi, invece, che qualità dovrebbero avere? E in definitiva, la brava maestra chi è? «È quella che fa rendere conto di sé il bambino. Le cose che trasmette devono essere innanzitutto importanti per sé stessa. Se vuoi farli piangere, commuoviti un pochino anche tu, diceva Orazio. E poi deve avere attenzione a registrare tutti i segnali esterni. Non basta più appellarsi al programma ministeriale: dentro o fuori. No. La scuola oggi non dovrebbe lasciare mai indietro, ma non per penalizzare i più bravi. Ma per non far perdere l’orientamento a tutti gli altri».

Ma allora che percorso vede? «Chiaramente le competenze occorrono. E credo che per altro siano diffuse nel nostro territorio. Sapere di più è meglio, ma saperne tanto senza un patrimonio affettivo da mettere a disposizione non serve a nulla».

Nel suo libro «Scuola di felicità» (Mondadori, 2016) vi è un personaggio, la dirigente Lisa Bardella, che vuole aumentare la «Felicità interna lorda» dell’istituto attraverso criteri di valutazione e razionalizzazioni. È quello che succede oggi? Insomma, basta una laurea per la «Fil» delle nostre scuole? «È la solita mania italiana. Che per altro ha un suo fondamento. Ma qualsiasi cosa tu faccia sul campo è diverso da quello che si apprende su un libro. Siamo maniaci dall’eccesso di formazione avulsa dall’esperienza di lavoro. Ma perché non abbiamo mai avuto rispetto del lavoro».

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