6 marzo 2018 - 08:19

Elezioni Politiche 2018, cappotto del centrodestra. Lega vera padrona

Conquistati 28 collegi su 28, in Veneto il Carroccio primo partito quasi ovunque. Gli «amici» di Forza Italia perdono 250mila voti ma anche il M5S si ritrova sotto di ottantamila. Il Pd è all’angolo

di Marco Bonet

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Lega, sempre Lega, fortissimamente Lega. Dominante a tal punto, qui in Veneto, da schiantare gli amici (Forza Italia) prim’ancora dei nemici (il Pd) e arginare lo scalpitante Movimento Cinque Stelle con cui il Carroccio potrebbe forse condividere qualche battaglia (l’Europa, la legge Fornero, l’immigrazione, i vaccini) di sicuro non il territorio, da cui la «Potentissima», come la chiamava Umberto Bossi, trae la sua forza sin dalle origini. Anzi, nella lotta per la supremazia i due partiti sembrano essersi spartiti l’Italia come in un armistizio d’epoca risorgimentale: al centrodestra a trazione salviniana il Nord sabaudo; ai Cinque Stelle condotti da Di Maio il Sud borbonico.

Affluenza sempre su

Il Veneto nonostante si voti ormai ogni anno (Regionali 2015, referendum costituzionale 2016, Comunali 2017, referendum autonomia 2017, tra qualche mese di nuovo Comunali) conferma la sua propensione alla partecipazione, «uno straordinario attaccamento alla democrazia» per dirla con le parole del presidente dell’assemblea regionale Roberto Ciambetti. L’affluenza è stata del 78,7% contro il 72,9% nazionale, un dato in riduzione rispetto alle tornate precedenti (81,7% nel 2013, 84,7 nel 2008, quando il dato fu comunque superiore alla media nazionale) ma va ricordato che all’epoca si votava anche il lunedì, mezza giornata in più. In questa cornice, il centrodestra conferma le attese dei sondaggi e col 48% fa cappotto al maggioritario, conquistando 28 seggi uninominali su 28, quelli delle sfide uno-contro-uno. Poi c’è il proporzionale e pure qui è un massacro: finisce 24 seggi a 22 ma in questi ultimi ci sono sia il Pd che i Cinque Stelle, insieme.

Il Big-Bang di Zaia

A trainare l’en-plein che fa la gioia del governatore Luca Zaia («È un Big-Bang») è la Lega, che dal 10,5% del 2013 (era l’epoca di Flavio Tosi, pare un’era geologica fa) schizza al 32,2% passando in termini assoluti da 310 a 918 mila voti. Lo si può ancora chiamare «populismo»? Voto «di protesta» (che, poi, contro che cosa, in una delle Regioni a più alto tasso di benessere e più basso tasso di disoccupazione, quella dell’export record e della sanità modello)? Di sicuro il Carroccio ha surfato l’onda lunga del referendum autonomista, che il 22 ottobre portò alle urne 2,3 milioni di veneti; più difficile parlare dell’ormai arcinoto «effetto Zaia», visto che il governatore ha assistito a questa campagna elettorale da una posizione piuttosto defilata (chissà, forse proprio per via della trattativa autonomista in corso d’opera col governo Pd; si vedrà che fine farà ora che Salvini è diventato uno degli azionisti di maggioranza del Parlamento). Altrettanto inequivocabile l’altro verdetto consegnatoci dalle urne: la nuova Lega nazionale, sudista, sovranista e un po’ trumpista piace assajeal Veneto indipendentista col mito della Serenissima.

Il decollo del Carroccio

Da dove ha preso i voti il Carroccio per decollare? Sicuramente da Forza Italia, felicissima per essere stata trascinata alla vittoria nei collegi uninominali (molti i big schierati lì, da Renato Brunetta a Niccolò Ghedini) meno, e se non lo è dovrebbe esserlo, per il risultato complessivo, visto che rispetto al 2013 cala dal 18,7% al 10,6%, perdendo per strada 250 mila voti. Se non si inverte la tendenza, il tramonto di Berlusconi e l’appannamento del brand rischiano di accompagnarsi a quello del partito tutto, che sul territorio, semplicemente, non esiste. E la Lega, come già è accaduto in Regione, non aspetta altro che di fagocitarselo definitivamente. Entusiasti i Fratelli d’Italia, che triplicano passando dall’1,5% al 4,3%; lo zoccolo duro ex democristiano, per quanto aiutato da Tosi a Verona, è ormai ridotto alla mera testimonianza.

Il ruolo dei Cinque Stelle

L’altro bacino da cui pesca la Lega è il Movimento Cinque Stelle. Sempre più interprete dell’inquietudine veneta, in qualunque forma essa si declini, dal tracollo delle banche alle Pfas, dai vaccini alla Pedemontana, il partito di Grillo e Di Maio vince nella città simbolo di Venezia (sempre più arcobaleno, visto che fu rossa e ora è fucsia Brugnaro) ma complessivamente arretra dal 26,3% al 24,4%, lasciando sul campo 80 mila voti. Un risultato in controtendenza rispetto a quello nazionale che potrebbe essere dovuto alle micidiali guerre intestine tra «dimaiani» e «ortodossi» (dalla macchina del fango al Tfr passando per le multe con l’autovelox) ma più che altro sembra confermare come l’elettorato del M5s sia in parte sovrapponibile a quello della Lega, sicché quando cresce uno, scende l’altro, e viceversa. È altrettanto vero, però, che i due partiti, sommati, costituiscono in Veneto una solida maggioranza (54,4%) e di questo si deve tener conto in vista delle possibili convergenze programmatiche di cui si parlava, anche in Regione. Con buona pace dell’establishment, i cui appelli spaventati sono caduti tutti mestamente nel vuoto (vedi alla voce: industriali).

Il defunto Pd

E veniamo al Pd, dove suonano campane a morto. In realtà, come fa notare il politologo Paolo Feltrin, in Veneto l’area di centrosinistra tutto sommato «tiene»: aveva il 23,3%, con Sel, nel 2013; oggi, con Liberi e Uguali (che ha numeri da scissione dell’atomo nonostante schierasse calibri come Zanonato, Zoggia e Mognato) è al 23%. Ma per i dem, poco nulla aiutati da +Europa della Bonino (2,7%), il clima è comunque da tregenda. E a ragione. Il Pd regge l’urto nelle città ma complessivamente perde il 4,6%, 151 mila voti, e quel che è peggio si conferma completamente sconnesso dalla società veneta, per colpe della dirigenza nazionale (banche e migranti in primis) ma pure di quella locale (la linea ondivaga e confusa sull’autonomia). L’orizzonte è cupo in vista del rinnovo delle amministrazioni di Vicenza e Treviso, dove i dem sono rispettivamente al 21% e al 23%, anche perché non si sa da che parte andare per ricominciare, svanito in fretta - in realtà già alle Regionali del 2015 e poi definitivamente col referendum del 4 dicembre - l’innamoramento per Renzi che qui, per un attimo, era sembrato poter deviare il flusso di una Storia che va avanti dal 1994.

Il politologo

«Nonostante la legge fosse sostanzialmente proporzionale - fa notare in chiusa Feltrin - il voto si è fortemente polarizzato sui partiti maggiori. Tolti Leu e Fratelli d’Italia, nessun altro piccolo partito entrerà in Parlamento. Un bel salto rispetto al passato, quando si contavano anche 14-15 gruppi diversi». A tal proposito, è curioso il dato di Casapound, Forza Nuova e Potere al Popolo (la lista nata dai centri sociali) che per giorni hanno dominato la campagna elettorale, innescando furiosi dibattiti sugli opposti estremismi: 0,7%, 1% e 0,7%.

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