Veneto, 22 ottobre 2017 - 22:34

Terrorismo, foreign fighters.
«Potrebbero colpire in Italia»

Dopo la caduta di Raqqa, si sospetta che Sonia, Meriem e Munifer siano in fuga. E si spera per il piccolo Ismail

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VENEZIA«Se Allah dice che ritorno, inshallah, allora ritorno…». È il luglio del 2016 quando Meriem Rehaily, la ventiduenne fuggita dal Padovano per arruolarsi nello Stato Islamico, risponde così al padre che al telefono la implora di rinunciare a quella follia e rimpatriare. Lei, che alle compagne di scuola confidava «Non vedo l’ora di piegare uno e togliergli la testa», non esclude un rientro. Anzi, aggiunge: «Ovvio che ritorno con la testa alta, io, non me ne frega di nessuno: se anche mi arrestano più di centomila anni, me ne vanto…».

Meriem

Ora, con Raqqa caduta e l’Isis allo sbando, molti foreign fighters sono in fuga. E il pericolo è che decidano davvero di fare rientro in Occidente, magari con dei documenti falsi. La nostra intelligence è già al lavoro anche perché, come si legge nell’ordinanza che ordina l’immediato arresto di Meriem, a preoccupare è la sua «disponibilità al martirio. Allo stato non può escludersi la possibilità che l’indagata possa essere disponibile a mettere a segno azioni kamikaze da commettere anche in Italia e in particolare a Roma». Un’eventualità che riguarda l’ex studentessa padovana, ma non solo.

Sonia

Anche Sonia Khedhiri, 22 anni, sparita da Onè di Fonte (Treviso) nell’agosto del 2014, ora è ufficialmente inserita nelle liste dei foreign fighters in mano alle polizie di tutto il mondo: pur non essendo ancora interessata da un mandato di arresto internazionale (l’inchiesta della procura di Venezia è tuttora in corso), se venisse individuata verrebbe comunque bloccata. Le ultime notizie, non confermate, la davano sposata al numero due dell’Isis, l’emiro Abu Hamza, che ha giurato: «Sono pronto a morire in battaglia con mia moglie». In realtà, il marito l’avrebbe mandata ad Al Mayadeen perché, dopo aver dato alla luce una bambina, era di nuovo incinta. Resta da capire se anche lei sia disposta a tornare «a testa alta» dai genitori che l’aspettano nel Trevigiano.

Munifer

I timori di un possibile rientro in patria coinvolgono anche Munifer Karamaleski, 29 anni, partito nel 2013 da Palughetto di Chies d’Alpago (Belluno). Ferito in battaglia, per un periodo avrebbe custodito il «tesoro dell’Isis», un deposito che contiene il bottino di guerra. È ancora vivo, o almeno questa è l’ipotesi confortata dal fatto che il suo telefono, che utilizzava in Siria già nel 2016, da qualche mese è tornato attivo: sul proprio profilo Whatsapp, l’ex imbianchino diventato tagliagole si diverte a pubblicare immagini che alternano bandiere nere e mazzi di fiori. Nell’ordinanza con la quale il giudice di Venezia ordina il suo immediato arresto, si legge che «solo il carcere può impedire che continui nell’opera di prosecuzione in ruoli attivi funzionali all’associazione terroristica, con condotte finalizzate (…) a combattere direttamente, non solo nei teatri di guerra in Siria, ma anche poi, al rientro, in Stati nordafricani oppure occidentali, quindi anche in Italia». Karamaleski è fuggito in Siria con la moglie Ajtena e i tre bambini piccoli, che ne frattempo hanno subìto l’indottrinamento previsto per i figli dei combattenti. Difficile capire quale sarà la loro sorte, ora che lo Stato Islamico sta crollando.

Ismail

Le notizie che arrivano dal fronte di guerra vengono seguite con il fiato sospeso anche da Lidia Herrera, che vive nel Bellunese ed è la mamma del piccolo Ismail Davud, sei anni, trascinato in Siria nel dicembre del 2013 dal suo ex marito Ismar Mesinovic, rimasto poi ucciso in un’imboscata. Il bimbo è già stato inserito nell’elenco internazionale delle persone scomparse. Si sa che potrebbe trovarsi nella cittadina di Manbij e nell’ultima nota della Direzione centrale della Polizia criminale si legge che le «Autorità dello Stato Islamico» hanno «consegnato il minore alle cure di una coppia proveniente dalla Bosnia, tali Bato e Emina (...) ma non è stato possibile stabilire la loro identità». Serve a poco: la procura di Belluno si è arresa da tempo e l’inchiesta è stata archiviata lo scorso anno.

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