Veneto, 3 ottobre 2017 - 11:42

Fatna, l’islamica che spiega
il Corano nel carcere di Verona

Da sei mesi va a Montorio, in un progetto pilota

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VERONA «Quando qualcuno ha bisogno mi avvisano. E io vado a parlargli». Lei è una donna. E non è una cosa poi così scontata, per quello che sta facendo. Loro sono i detenuti del carcere di Montorio. E i dialoghi tra quella donna e quei carcerati raccontano dell’Islam.

Fatna Ajiz, mediatrice culturale e «guida spirituale» al carcere di Montorio a Verona
Fatna Ajiz, mediatrice culturale e «guida spirituale» al carcere di Montorio a Verona

Il progetto

Lei si chiama Fatna Ajiz. È nata in Marocco, ed è musulmana. A Verona ci vive da 19 anni. E come suo marito e i suoi due figli, Fatna è cittadina italiana. «Tutta la famiglia», dice con orgoglio. L’Ucoii, l’unione delle comunità islamiche in Italia, ha scelto questa donna che da anni lavora come mediatrice culturale, per un progetto sperimentale siglato con il Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Un progetto che ha, nel suo piccolo, del rivoluzionario. Perché a predicare il Corano in otto carceri italiane, tra cui Montorio, sono state mandate otto donne. Se è nelle celle che nasce il radicalismo, allora - è stato il pensiero da cui è scaturito il progetto - si può insegnare che non solo quello non è l’Islam e lo si può fare scardinando uno dei principi del fondamentalismo, vale a dire quello che vuole le donne relegate ai margini della società.

Una guida

Fatna era già la prima donna musulmana ad essere entrata in un carcere come mediatrice culturale, grazie alla cooperativa con cui lavora. Ma adesso può non solo occuparsi dei problemi materiali dei suoi interlocutori, ma anche di quelli spirituali. E questo è da sei mesi nel carcere veronese, Fatna: una «guida spirituale». «Quando sono arrivata al carcere di Montorio come mediatrice - racconta - ho spiegato alla direzione, alla polizia penitenziaria e a chi lavora nella struttura quali sono le esigenze e le cose fondamentali per chi segue la fede musulmana. Cosa prevede e cos’è il Ramadan, ad esempio. O altre festività. O cosa è permesso mangiare. Così un po’ alla volta anche la struttura penitenziaria ha accolto i detenuti islamici». Ma da mediatrice a «guida spirituale» Fatna è passata grazie a un master seguito all’università di Padova, che analizzava la vita dei detenuti musulmani nelle carceri italiane e il rischio di radicalizzazione all’interno delle celle. «Quando l’Ucoii e il Dap hanno dato vita al progetto - racconta - hanno chiesto una serie di nominativi. E grazie a quel master è spuntato il mio nome». Fatna ai carcerati racconta di un Islam che molti di loro faticano a ricordare.

La fede di Fatna

«Io gli parlo di un Islam di pace, di accoglienza e di convivenza». Quello in cui lei, per prima, crede. Fatna che porta il velo per scelta e non per imposizione. «Il Corano non obbliga la donna in nulla. Il velo per me è una scelta». Anche se, ammette, che «soprattutto in carcere preferisco portarlo. Se devo parlare di religione e la religione in cui credo e di cui parlo lo prevede, mi sembra giusto farlo. Altrimenti più di qualcuno potrebbe mettermi in dubbio...». Non pensa - neanche lontanamente - ad essere paragonata a un «imam donna», Fatna. «Sia chiaro che io non conduco la preghiera. Per quella del venerdì e per le feste sacre dell’Islam quella viene condotta da imam della comunità islamica veronese. Io faccio altro. Io, se qualcuno di questi uomini esprime il desiderio di parlare della propria fede, vado e insieme discutiamo, cerchiamo quelle risposte che loro cercano e che l’Islam sa dare».

Un passo contro l’integralismo

Quell’Islam «moderato», o «aperto», come lo chiama chi ha della fede nel Corano una conoscenza basata su un radicalismo che non appartiene alla religione musulmana. E neanche a Fatna. Che con i «pregiudizi» degli integralisti si scontra anche in carcere. «Quando arrivo, sono in pochi a meravigliarsi o a contrariarsi del fatto che io sia una donna. Anzi. Per qualcuno diventa un elemento quasi rassicurante. Ma dipende molto dai Paesi e dalle tradizione di origine. I marocchini, i tunisini e gli egiziani non hanno nessun problema. Le difficoltà le ho con i pakistani, o gli afgani. Con chi arriva da zone in cui l’Islam mette la donna ai margini, coprendola anche fisicamente. Ma alla fine riesco a dialogare anche con loro...». Perché Fatna, con il suo essere donna e parlare di Corano, altro non è se non questo. Il primo avamposto contro l’integralismo. E a Montorio ci sta riuscendo alquanto bene.

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