29 dicembre 2017 - 09:14

Abiti, trucco, amicizie. Tutti i divieti imposti alla ragazzina rasata

Le motivazioni della condanna: «Punizione dovuta all’Islam, ma non c’è prova di maltrattamenti»

di Andreina Baccaro

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BOLOGNA - «Non vuole che mi trucchi perché è da vanitose e perché potrei attrarre compagni maschi a scuola, dice che secondo le regole islamiche le ragazze devono essere coperte, non vuole che io frequenti nessuno». Così la 14enne, che abbiamo sempre chiamato Fatima, che a marzo denunciò alle insegnanti che la mamma le aveva rasato i capelli perché non voleva portare il velo, ha raccontato ad assistenti sociali e psicologa, il rapporto conflittuale con la donna 39enne del Bangladesh, culminato in quel gesto violento. Ma il gup Letizio Magliaro, che ha condannato la madre a otto mesi di reclusione con pena sospesa per violenza privata e assolto il padre, spiega nelle motivazioni della sentenza depositate ieri che quel gesto fu frutto di un rapporto conflittuale tra madre e figlia che non può essere qualificato come «reato di maltrattamenti familiari» ma come un «semplice» gesto di violenza privata, seppure frutto di un modello educativo rigido e discutibile.

«La limitazione delle uscite — scrive il giudice —, la richiesta di uno stile di vita in sintonia con il ruolo attribuito alla ragazza dal contesto culturale di riferimento, appaiono inserite in un sistema educativo assai discutibile, che sicuramente potrebbe trovare fondate critiche sotto il profilo pedagogico o dello sviluppo psicologico e personale della minore. Ma la critica non può equivalere ad attribuire a tale modello lo stigma del reato di maltrattamenti».

Il caso aveva fatto il giro di giornali e tv nazionali, dopo la denuncia ai carabinieri della preside della scuola media frequentata da Fatima, che da allora vive lontano dalla famiglia in una comunità protetta. Anche se l’avvocato di parte civile ha riferito in udienza la volontà della minore di tornare a casa e gli avvocati dei genitori, Alessandro Veronesi e Roberto Godi, depositeranno presto un’istanza al Tribunale dei minori. «I genitori erano stati dipinti come dei mostri — osserva Veronesi —, le motivazioni dimostrano che non lo sono».

Il giorno del taglio dei capelli, la madre aveva scoperto ancora una volta la figlia tornare a casa senza velo e, infuriata per le bugie che le raccontava, le aveva inflitto la punizione umiliante. La ragazzina, ha raccontato lei stessa, diceva bugie ai genitori per poter vivere come le sue coetanee, avere le stesse libertà e lo stesso stile di vita, invece di sentirsi diversa a causa della religione, di quel velo imposto . «Mi sgrida perché mi sveglio tardi, perché mi vesto nel modo che non vuole lei — aveva scritto Fatima in un tema —. Alcune volte vado in cantina a piangere». I litigi continui portarono la donna al punto di dire a Fatima: «Non sembri figlia mia. Mi pento di averti fatta nascere».

Per la Procura c’era in quella famiglia «un regime di vita oppressivo e intollerabile sistematicamente connotato dall’uso della violenza fisica o psichica». Ma per il Tribunale non è stato provato. Davanti al giudice marito e moglie hanno ammesso di aver commesso un grave errore, di aver causato cone le loro imposizioni una grande sofferenza e un sentimento di isolamento nella figlia: un ravvedimento che ha spinto il giudice a dare loro un’altra opportunità.

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