Firenze, 5 novembre 2017 - 16:13

Renzi: io, la mia tesi di laurea, La Pira
Un’eredità, profezie e concretezza

Il segretario del Pd ed ex sindaco di Firenze: «Ho sempre tenuto sia a Palazzo Vecchio che a Palazzo Chigi la foto di La Pira che consegna le case ai ragazzi dell’Isolotto»

di Paolo Ermini

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Giorgio La Pira quarant’anni dopo la sua morte. Il profilo di un sindaco storico di Firenze, le sue intuizioni profetiche, ma anche gli ostacoli e le incomprensioni che trovò lungo la sua strada, assai più lunga del tragitto che percorreva ogni giorno, dal convento di San Marco al suo ufficio in Palazzo Vecchio. Soprattutto, il valore ancora forte del suo messaggio. Ne parliamo con Matteo Renzi, anche lui sindaco di Firenze, circa mezzo secolo dopo. Due cattolici, due stagioni, due stili molto diversi.

Matteo, si ricorda qualcosa di particolare della sua tesi di laurea su La Pira?
«È stata una tesi abbastanza strana. Come tutti i giovani cattolici di sinistra ero innamorato di La Pira e volevo farla su di lui costituente, sul “professorino”, il rapporto con Fanfani, Dossetti, la stagione 1946-48. Il relatore era il professor Sordi e suo assistente era l’avvocato Giulio Conticelli, che poi sarebbe diventato presidente della Fondazione La Pira. Conticelli mi disse: perché non la fai su La Pira sindaco? Io tutto immaginavo allora tranne che avrei fatto il sindaco di Firenze, in me prevaleva l’elemento di essere uno del contado, di Rignano... Così questo tema non mi emozionava particolarmente. Ma il taglio che voleva dargli Conticelli, su come le ordinanze e i documenti amministrativi della prima giunta La Pira del 1951-56 si coniugassero con i principii della Costituzione repubblicana da poco approvata, mi piacque molto. E fu divertente anche studiare le sedute del Consiglio comunale e i vari personaggi che allora vi sedevano, come il vicesindaco Alberto Nocentini messo lì dalla Dc per controllare La Pira. Interessante ad esempio come La Pira, con il supporto di Giampaolo Meucci, teorizzasse le requisizioni delle case sfitte per i senza tetto, l’intervento sulle farmacie e volesse la Centrale per garantire ad ogni bambino un bicchiere di latte a scuola. Il suo discorso del 1954, quando consegnò le case del nuovo quartiere dell’Isolotto, è bellissimo, soprattutto quando dice: città non case, perché tiene insieme visione del mondo e urbanistica. Citai quel passaggio anche presentando il piano strutturale a volumi zero per Firenze».

Se la tesi è così divertente, perché non divulgarla? Noi non siamo riusciti a trovarla...
«Non l’ho certo secretata, è all’archivio del Comune in via dell’Oriolo. E da qualche parte io ho ancora la mia copia. Qualcuno ha detto che l’avevo copiata, ma era tutta roba mia. Se volete ve la do».

Il voto: 109.
«Credo di essere uno dei pochissimi ad essersi laureato con 109. Avevo di media 103 e allora si davano massimo 7 punti in più, e mi ero preparato per mesi e mesi per cogliere il massimo risultato, tanto che mi sposai a settembre del 1999 con Agnese e ancora non mi ero laureato. Ma litigai col controrelatore, il professor Danilo Zolo, per la sua analisi ideologica di La Pira che io contestai. E quando mi dissero “109” mi misi a ridere. Molti anni dopo, quando sono diventato sindaco, ho ripensato molto a quegli studi: l’esperienza ti fa rileggere le cose in maniera diversa. Ad esempio La Pira in un discorso che ho citato più volte in Europa disse: a che serve il pareggio di bilancio se non è in pareggio la vita? Diceva che si doveva investire per i disoccupati, per chi non ce la fa, per la povera gente».

Sottolineava il valore umano di un bilancio.
«Non solo. Tante volte lo prendevano in giro perché era un poeta, un profeta, e lui in alcuni discorsi sul bilancio rispondeva: io so far di conto, sono un ragioniere. Perché lui era un ragioniere davvero».

È stato definito «sindaco santo», un concetto molto diverso da sindaco rottamatore...
«Non c’è paragone. Lui era santo davvero, io rottamatore non so fino a che punto lo sono stato fino in fondo. Il paragone è improponibile. Ho però un bigliettino scritto a mano dal cardinale Silvano Piovanelli che nel luglio 2010 mi spingeva a vivere l’esperienza di Palazzo Vecchio pensando che avevo un cotanto predecessore. Il problema è che La Pira è stato considerato da tanti più un santino che un santo. La sua straordinaria forza profetica ha fatto sì che nel mio viaggio in Vietnam, il primo di un premier, quando citavo La Pira (che vi andò nel 1965, ndr) tutti me ne parlavano bene. L’esperienza di La Pira mi ha segnato profondamente. Quando sono arrivato a Gerusalemme e ho parlato alla Knesset mi tornavano in mente la Gerusalemme Celeste, la sua città sul monte. Ho sempre tenuto sia a Palazzo Vecchio che a Palazzo Chigi, oltre alla foto del Presidente della Repubblica, quella di La Pira che consegna le case ai ragazzi dell’Isolotto, con dietro il cardinale Elia Dalla Costa».

Sul piano storico una scuola di pensiero ha giudicato La Pira come un pericoloso filocomunista. Altri sostengono la tesi opposta, che lui volesse sconfiggere il comunismo realizzandone quel che conteneva di positivo, sennò — diceva — saranno loro a realizzarlo. Chi aveva ragione?
«È difficile per me dare un giudizio. Certo su alcune questioni ci giocava, come quando in alcuni scontri in Consiglio comunale diceva: i veri materialisti siamo noi, riferendosi a Gesù. Era un politico con la p maiuscola. Una dimensione che si vedeva di più sul piano internazionale».

Che cosa rimane del messaggio di La Pira nella politica italiana?
«L’aspetto profetico, p
rima di tutto. Il viaggio in Russia nel 1959 fu straordinario, come il messaggio della centralità delle città come costruttrici di pace. Io e Dario Nardella, con il convegno internazionale dei sindaci, abbiamo cercato umilmente di ricalcarne le orme. Della centralità delle città ho parlato anche l’altro giorno negli Usa con l’ex presidente Obama. Di La Pira rimane un elemento che suggerisco a tutti i sindaci: la capacità di coniugare l’ideale con la concretezza. Faceva discorsi ai massimi livelli e realizzava concretamente strade e infrastrutture, da questo punto di vista era keynesiano».

A Firenze non servirebbe un po’ più di lapirismo nella lotta alla rendita e nella riqualificazione delle periferie?
«Penso che il lavoro che si sta facendo a Firenze darà frutti tra 5-10 anni, facendone la prima città in Italia per riqualificazione, forse insieme a Milano. Io sono un grande sostenitore dei progetti fiorentini di riqualificazione, peraltro partiti ormai da anni e non solo durante la mia consiliatura e che questa giunta sta portando avanti. Serve una grande attenzione ai disagi del quotidiano, ma la direzione è assolutamente giusta».

Lei ha sempre sottolineato la sua laicità politica di uomo cattolico. La Pira era un cattolico che nella sua attività politica si ispirava al Vangelo. Non è la stessa cosa...
«Non è la stessa cosa, lui era anche santo! Io ribadisco, anche se questo mi ha creato qualche problema con alcuni amici, che non vedo alternativa all’essere un cattolico impegnato in politica profondamente laico. La laicità che io ho difeso è un principio sacrosanto».

La Pira ha avuto anche forti contrasti con una parte della Chiesa, sia a Roma che a Firenze. Lei ora come è messo con la gerarchia?
«Sono messo molto bene: adesso non ho alcun titolo per parlarne».

Come segretario del Pd...
«Quando sono stato presidente del Consiglio ho avuto un’ottima collaborazione con la Santa Sede, sia negli eventi, a partire dall’anno del Giubileo della Misericordia e per la sua apertura nella Repubblica Centrafricana, sia nella gestione quotidiana. Sono grato al Santo Padre per la straordinaria attenzione verso l’Italia e per il discorso sull’Europa che ha voluto tenere nel 2014 durante il semestre italiano di presidenza dell’Unione Europea. E su altre questioni, alcune delle quali tengo per me. E da segretario del Pd ho grande rispetto per gli organismi che presiedono alla vita politica italiana; riguardo alla Conferenza Episcopale Italiana ho la gioia che ne sia presidente un uomo come il cardinale Gualtiero Bassetti che conosce i temi lapiriani molto meglio di me».

C’erano stati un po’ di problemi con una parte del mondo cattolico per l’approvazione della legge sulle unioni civili. Ora la sfida sullo ius soli forse può sanare quella ferita?
«Io non credo che ci sia stata una ferita. La stragrande maggioranza del mondo cattolico ritiene giusta la legge sulle unioni civili. Su ius soli e testamento biologico mi sono già espresso e non voglio aggiungere altro. Il rapporto tra il Pd e il mondo cattolico è di grande rispetto. La battaglia della prossima legislatura sarà soprattutto sulla famiglia e sulla fiscalità per la famiglia».

Nel suo pantheon c’è La Pira, ma c’è anche don Milani, che almeno in un’occasione attaccò duramente La Pira. Ma questo suo pantheon, che poi è quello del Pd, non è un po’ confuso?
«Nel pantheon del XX secolo del mondo cattolico fiorentino c’è tutto ed il contrario di tutto, ci si potrebbero scrivere decine di libri, altro che una tesi. Il punto di riferimento di tutti è quel cardinale Elia Dalla Costa che chiude le finestre dell’arcivescovado durante la visita a Firenze di Hitler, perché la croce uncinata non incroci la croce di Cristo. E, lo dico per la prima volta, nel primo colloquio ufficiale da premier con Papa Francesco, che stava preparando la sua visita a Firenze nel novembre del 2015, abbiamo iniziato la discussione proprio da Dalla Costa».

Un po’ di storia fatta con i se. La Pira oggi sarebbe nel Pd?
«Non è possibile rispondere a questa domanda».

E lui cosa penserebbe dei populismi?
«È difficile rispondere. Ma lui era un uomo curioso, coraggioso, anche nel 1976 si mise in campo quando glielo chiese il segretario della Dc Zaccagnini, diceva: i giovani sono come le rondini, la libertà li attrae. Non si sarebbe tirato indietro».

Ma il La Pira della lotta per i lavoratori del Pignone cosa le direbbe del Jobs Act?
«Non voglio fare esagerazioni storiche, ma La Pira era uno di quelli che si batteva per il posto di lavoro, punto. Impossibile sapere cosa avrebbe detto del Jobs Act o dell’articolo 18. Ma il suo obiettivo era la piena occupazione. Dunque avrebbe sicuramente apprezzato ogni aumento dei posti di lavoro, come quelli che il Jobs Act ha prodotto: 986.000 posti di lavoro in tre anni sono l’eredità più significativa del nostro governo ma anche il miglior modo per onorare il principio sancito dell’articolo 1 della Costituzione: l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Altro che sussidi e reddito di cittadinanza
».

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