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Il Nyt svela i conti dell’IS: la tomba dei complottisti

turchia

Il New York Times ha pubblicato un eccezionale lavoro giornalistico che racconta (anche) come lo Stato islamico riusciva a finanziarsi per amministrare l’enorme quantità di territorio tra Iraq e Siria che tra il 2014 e per metà del 2017 si è trovato sotto il suo controllo.

I giornalisti hanno scansionato migliaia di documenti risalenti agli anni di dominio jihadista nel Siraq (se ne scrive come se tutto fosse finito da tempo, ma stiamo parlando di una situazione ancora non del tutto risolta, dato che il grosso della statualità dell’organizzazione che ha dato vita al Califfato è stata sconfitta dalle forze della Coalizione internazionale a guida americana, ma rimangono sacche ancora sotto il controllo degli uomini di Abu Bakr al Baghdadi e poi c’è il grande enigma del futuro: ossia, quello che i baghdadisti saranno nei prossimi anni, perché l’unica cosa certa è che quell’ideologia non è stata definitivamente soppressa).

Da “The ISIS Files“, questo il titolo del lavoro (riduttivo chiamarlo articolo) diventa anche una conferma definitiva per ogni osservatore sincero a quello che fondamentalmente chiunque seguisse, studiasse, approfondisse con schiettezza la realtà califfale si è trovato davanti. Lo Stato islamico riusciva (e nel piccolo riesce) ad autofinanziarsi attraverso un’amministrazione capillare. Il Califfato aveva creato un sistema di tassazioni con cui portava entrate nelle casse statali, obbligando con la forza i cittadini delle aree controllate a obbedire alle richieste di Baghdadi.

C’erano le raffinerie clandestine da cui sfruttava i pozzi che aveva conquistato rivendendo il greggio nel mercato interno (è noto da tempo il rapporto di necessità stretto col governo siriano), c’erano le entrate dall’agricoltura (un elemento spesso trascurato ma invece piuttosto importante nell’economia di auto-sostentamento dell’IS), sul piano militare c’erano le armi rubate alle caserme locali abbandonate dai soldati iracheni e soprattutto siriani in fuga.

Quello che non c’era era la necessità di finanziamenti dall’esterno. E dunque, nei documenti ufficiali dello Stato islamico, tra cui anche alcuni segretissimi che riguardavano i conti veri e propri, non c’è traccia di quelle ricostruzioni complottiste che continuano a dire all’ingenuo, allo sciocco, allo schiantato che l’IS è stato creato dagli Stati Uniti e finanziato con i soldi dei sauditi e dei qatarini

(Attenzione, prima di andare avanti: questo non significa che qualche benefattore solitario non abbia pensato, almeno agli inizi, di mandare qualche obolo verso quell’organizzazione che stava costruendo il Califfato, ossia quello che certe predicazioni estremiste islamiche professano da sempre; ma “qualche benefattore solitario” è diverso dal dire che Riad, Doha, Abu Dhabi, etc, come governi, finanziavano quel gruppo terrorista che s’è fatto stato; anche perché i baghdadisti considerano i sauditi, gli emirati e i qatarini che ospitano la più grande base aerea americana in Medio Oriente – da cui partono anche gli aerei che li bombardano – come nemici apostati complici dell’Occidente e da eliminare come sacrificio da offrire ad Allah).

Di solito quelle teorie finiscono col dire (più o meno velatamente) che per fortuna la Russia è intervenuta a far saltare il complotto, perché sono spesso frutto di un piano di disinformazione accuratamente studiato per attecchire come la gramigna in un terreno fertilissimo per certe cospirazioni: Internet. In altra declinazione arrivano invece che da Mosca da Teheran (altre volte si sovrappongono, visto la partnership tra i due paesi) perché sono messe in piedi dalla disinformazione sciita, che detesta gli americani, i paesi sunniti del Golfo e gli israeliani (non a caso un posto per il Mossad in certe teoria pazze si trova sempre).

La più gigantesca di queste ricostruzioni è stata direttamente sponsorizzata dal ministero della Difesa russo, che il 2 di dicembre del 2015 convocò una conferenza stampa in una situation room agghindata da film di spionaggio e piena di ufficiali incravattati per mostrare al mondo le malefatte di uno dei governi sunniti amici dei terroristi. Il clima era tesissimo, una settimana prima due F-16 turchi avevano abbattuto un bombardiere russo sul confine siriano: un pilota era stato ucciso dai ribelli siriani turkmeni alleati di Ankara mentre si calava col paracadute, l’altro era stato recuperato con un rescue-mission costata la vita a un ranger russo colpito da un missile anticarro lanciato contro l’elicottero che lo trasportava.

Un delirio: Mosca, entrata da un paio di mesi con gli stivali nella guerra siriana – non per combattere l’Isis, ma per puntellare il regime amico di Damasco che combatteva i ribelli che combattevano l’Isis (si perdoni il giro di parole, ma la Siria è una matassa intricata, ndr) – aveva subito una perdita pazzesca che avrebbe spezzato la narrativa muscolare putiniana. E allora dalla Difesa il Cremlino aveva organizzato una messa in scena teatrale per dimostrare – con foto satellitari sgranate, e dunque da credere sulla fiducia – che il presidente turco Recep Tayyp Erdogan era il principale dei finanziatori dello Stato islamico. Lui, e suo figlio, compravano il petrolio raffinato clandestinamente dall’IS in Siria, ci lucravano per loro affari e permettevano ai baghdadisti di trovare i soldi per le armi con cui continuare il loro jihad califfale.

Era un attacco ferale alla Turchia – che aveva colpito la Russia abbattendo quel jet – e all’Occidente, alleato Nato di Ankara. Un tassello fondamentale nella diffusione delle strampalate teorie sul finanziamento dell’IS da parte degli occidentali e dei loro alleati mediorientali. Un mezzo perfetto per accreditarsi come gli unici attori in campo in grado di sovvertire quel progetto marcio.

Che la teoria fosse una pagliacciata lo possiamo capire a distanza di qualche anno. In questi giorni, Erdogan ha ospitato una visita di Vladimir Putin in Turchia: i due si sentono e si vedono con la costanza dei buoni amici da almeno un paio di anni, perché Mosca ha giocato altre carte per proprio interesse, ha fatto accordi con Ankara anche sulla Siria e sta utilizzando la Turchia come proxy per destabilizzare Europa, Stati Uniti e Nato — e al Reis non dispiace. L’altro ieri, i due leader erano seduti fianco a fianco mentre inauguravano da remoto il primo reattore nucleare turco, la cui tecnologia verrà fornita dalla Rosatom, l’azienda atomica statale di Mosca – che dopo due anni da quella prodigiosa conferenza stampa disinformativa sui traffici baghdadisti di Erdie ora è super friendly con Ankara, che chissà come non è più la finanziatrice dell’IS.

Come dice Daniele Raineri sul Foglio, “nessuno ci trova nulla di strano”, d’altronde è più facile seguire un meme su Facebook che rimbalza teorie strampalate che leggersi un approfondimento del New York Times.

 

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