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Cari giornaloni, per capire la società serve un bagno di realismo. La versione di Polillo

Qual è il compito di una classe dirigente? Piangere sul latte versato? Guardare, con i lucciconi negli occhi, al bel tempo che fu, sperando che i nuovi barbari possano prima o poi scomparire? Questa è l’impressione prevalente che si ha nel leggere la maggior parte dei grandi quotidiani nazionali. Dai quali francamente c’è da aspettarsi di più. Soprattutto il tentativo di capire i caratteri di una nuova fase politica, per interagirvi. Nella speranza di contribuire a evitare gli errori che inevitabilmente ad essa si accompagna, almeno nella speranza di limitare il danno.

Il ‘68 è stato archiviato tra il rimpianto di alcuni e la condanna di molti. Ma, come scrisse Peppino Caldarola, proprio su Formiche.net: in “Italia produsse un sommovimento che capirono pochi uomini politici: fondamentalmente il vecchio capo militare dei partigiani, Luigi Longo, segretario del Pci, che volle incontrare i giovani contestatori e quel personaggio straordinario che fu Aldo Moro, che continuò a riflettere sulla rivolta, maturando quelle idee che perseguì fino a che le Brigate rosse non lo catturarono e uccisero”.

Molti esponenti della classe dirigente la pensarono in senso opposto. Nota è la posizione di Pier Paolo Pasolini. Che considerava la rivolta del ’68 solo come una falsa rivoluzione. Il prodotto di una cultura piccolo borghese (contro i proletari in divisa – le forze dell’ordine – costretti a presidiare le manifestazioni di piazza) che si era servita dei giovani per distruggere i suoi vecchi miti divenuti obsoleti. Giovani a loro volta ignari del fatto che la vera rivoluzione – quella neocapitalista – si era ormai definitivamente affermata.

Dove fosse riposto un maggior senso della storia é facile da vedere. Tant’è che i fatti successivi, pur con mille limiti e contraddizioni, fino alla tragica emersione del fenomeno terroristico, diedero ragione a Longo e Moro e non a Pasolini. Indietro non si tornò.

Oggi, sebbene i motivi della rabbia sociale siano diversi, a difendere le ragioni, poco storiche, del vecchio establishment, tramortito dai più recenti risultati elettorali, è soprattutto la Repubblica. Che spera in una catarsi provvidenziale, da cui far riemergere la fenice di un ordine sociale più consono al suo modo di sentire. Più oscillante la linea de Il Corriere della sera, che, a volte avverte la necessità di comprendere meglio ciò che si agita nella pancia della società italiana. Ma che più spesso si perde in una pedagogia dal sapore passatista. Non è un ritorno a Pasolini. Questa volta si tenta di esorcizzare quel che non rientra nei propri schemi mentali. Mentre allora la visione era lucida. Solo che si demonizzava.

Da questo punto di vista la pagina di domenica scorsa, che il Corriere dedica agli editoriali, è significativa. Gran parte dell’intervento di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, nella loro critica ad “un paese da mondo antico”, è assolutamente condivisibile. Il liet motiv è quello che abbiamo indicato: indietro non si torna. Ma poi c’è una caduta che rischia di annullare ogni effetto positivo. “Un paese impaurito dagli immigrati – scrivono – che sono solo il 9 per cento circa della nostra popolazione contro il 12 in Francia e Germania”. Potenza dei numeri: verrebbe da dire. Come se queste piccole differenze potessero essere espressive delle diversità (istituzionali, economiche e finanziarie) che dividono queste diverse realtà statuali.

Ancor meno comprensibile l’intervento di Luigi Ferrarella contro Matteo Salvini, che va fermato. Una lunga tiritera contro tutti coloro che non si oppongono ad una deriva anti immigrati. Ma non una sola parola contro il muro di gomma dell’Europa, che non rispetta gli impegni, chiude le frontiere e lascia sola l’Italia a fronteggiare il grande esodo. Quasi si trattasse di un elemento secondario e non del cuore stesso del problema. Problema che il semplice ricorso al richiamo etico della politica, come sempre è avvenuto, non è in grado di risolvere.

Ed ecco allora la necessità di un bagno di realismo. La forza di una classe dirigente è tale solo se comprende le ragioni del popolo. E cerca di trovare le necessarie soluzioni. Altrimenti resta prigioniera dei recinti chiusi del vecchio establishment. Che il movimento inarrestabile della società ha già espugnato

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