Con Bush sr, il suo primo giorno alla Casa Bianca

Il 20 gennaio 1989 a Washington ci fu l'inaugurazione di George Helbert Walker Bush, con il giuramento del 41esimo presidente degli Stati Uniti. Come tradizione, la sera stessa il Congresso organizzò cene in suo onore per politici, diplomatici, lobbisti e giornalisti: ad una mi ritrovai invitato anch'io, da poco trasferito da New York alla capitale come corrispondente di "Repubblica". A tavola incrociai Maureen Dowd, allora corrispondente dalla Casa Bianca del New York Times, futura columnist premio Pulitzer del medesimo quotidiano. Ma il giorno dopo Bush e la first lady Barbara introdussero una novità nel protocollo dell'insediamento di una nuova amministrazione: aprirono la Casa Bianca al pubblico, alla gente comune, insomma al popolo che lo aveva eletto. Una scelta di rottura rispetto alla presidenza "imperiale" di Ronald Reagan, il suo predecessore.

Assai più di Reagan, Bush era un prodotto dell'establishment: figlio di un senatore, nella sua carriera era stato deputato, ambasciatore all'Onu e in Cina, presidente del partito repubblicano, direttore della Cia e per otto anni vicepresidente degli Stati Uniti. Si diceva che nessuno era mai arrivato meglio preparato di lui alla carica di presidente. Eppure, nonostante una saggia e prudente gestione del crollo dell'Urss e della prima guerra in Iraq (quella per liberare il Kuwait), la sua presidenza durò solo 4 anni, battuto da Bill Clinton alle elezioni del 1992. Gli rimproverarono tra l'altro di non avere "una visione": lui rispondeva seccato di non capire cosa diavolo fosse "this vision thing" che, nel suo pragmatismo da professionista della politica, gli sembrava una colossale stupidaggine (se senti un politico che dice di avere una visione, ho letto di recente a proposito della Brexit, prendigli un appuntamento con uno psichiatra). A dispetto del curriculum, tuttavia, forse perché aveva combattuto come pilota d'aereo nella seconda guerra mondiale, venendo abbattuto una volta sul Pacifico e ricevendo quattro medaglie al valore, Bush aveva profondo rispetto per l'uomo medio. Si poteva spiegare così la sua decisione di "aprire la Casa Bianca" al popolo, per dimostrare che quella casa, di cui era temporaneamente l'inquilino, apparteneva in realtà alla nazione, non a lui.

Era una fredda mattinata di gennaio, a Washington. Mi misi in coda con uomini, donne e bambini, increduli di essere invitati alla Casa Bianca. Non serviva un invito formale, non occorreva prenotarsi su internet, che ancora non esisteva: bastava appunto mettersi in fila. E attendere, perché la fila era lunghissima. Finalmente, arrivò il mio turno. Insieme a un gruppo di cittadini, venni scortato attraverso la parte della Casa Bianca che era sempre aperta alle visite, come un museo, e poi in quella off-limits, dove si intravedevano i segni di un trasloco in corso e di un nuovo governo al lavoro. In una sala, seduti dietro un tavolo, George e Barbara salutavano uno per uno i visitatori, scambiando qualche parola con ciascuno. Arrivato davanti a loro, strinsi la mano al neo-presidente e gli dissi che ero italiano. "L'Italia? Un paese splendido, non vedo l'ora di venirci", commentò George e la moglie assentì. Poco dopo mi ritrovai fuori, a riflettere che avevo incontrato, come si usava dire, l'uomo più potente della terra. Un ex-soldato che non era sfuggito alla leva con sotterfugi (diversamente da Clinton e Trump), un fedele servitore dello stato, l'ultimo campione della cosiddetta "Great Generation" - come scrive oggi Vittorio Zucconi sul nostro sito - che ha vinto la seconda guerra mondiale e fatto del ventesimo secolo "the American century". Un sogno americano che ora appare spento di ideali e modelli, probabilmente destinato a essere sostituito - suggerisce il columnist Simon Kuper  sul Financial Times di stamane - da un "North European dream", il sogno scandinavo di una società più equa, meglio assistita e più felice.

 

2 commenti

  • però che great generation eh !
    ha messo al mondo un’ ameba e dobbiamo ancora ringraziarlo ...

  • Oh, quant'erano belli gli anni di BUSH vecchio.
    Un presidente senza grinta come lui, che non aveva alcuna politica interna, scollegato dalla vita del popolo, esssendo parte dell'elite. E, ovviamente, rimpianto dal corrispondente Unico per disprezzare TRUMP. Sempre

    P.S. leggetevi i libri di KEVIN PHILIPS, che ha abbandonato il Partito repubblicano nel 1988, quando i BUSHES ne hanno assunto il comando in combutta coi loro SPECIAL INTERESTS, LOBBIES.

    Ma qui sopra, il corrispondente Unico esalta il mito Bush....
    Tutto per sovvertire la Storia...