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I giudici: Rocca braccio destro del boss a Mantova

In un dossier di 498 pagine ricostruita la ragnatela della ’ndrangheta nel Mantovano e il ruolo del muratore di Pietole

Rossella Canadè
3 minuti di lettura

MANTOVA. «Qualsiasi problema tu abbia su Mantova parlane con Rocca, se parli con Rocca è come se parlassi con me». Parola di boss. Così, nella tavernetta di Cutro, Nicolino Grande Aracri, nel giugno del 2012, dà le istruzioni a Paolo Signifredi, il suo uomo dei conti. È una delle decine di intercettazioni citate dai giudici del processo Pesci nelle 498 pagine contenenti le motivazioni di una sentenza destinata a far storia. Il collegio del tribunale di Mantova composto da Ivano Brigantini, Ilaria Rosati e Francesca Grassani, lo scorso settembre ha condannato dieci dei sedici imputati accusati di aver messo a segno estorsioni, minacce, detenuto armi, corrotto il mercato edilizio ed economico mantovano sotto le direttive del boss della ’ndrangheta Nicolino Grande Aracri. I pm della Dda bresciana Claudia Moregola e Paolo Savio sono riusciti a portare alla sbarra e a far condannare “Manuzza” per associazione mafiosa al nord per la prima volta. Ora, dopo quasi cinque mesi di lavoro, dopo un processo durato un anno e mezzo seguito alle indagini dei carabinieri del nucleo investigativo di Mantova, si può leggere nero su bianco la ricostruzione della ragnatela intessuta dalla cosca nella terra mantovana, presa di mira dal boss «per il suo humus socioeconomico straordinariamente favorevole all’infiltrazione ’ndranghetista soprattutto nel campo delle attività legate all’edilizia che, dopo aver goduto per decenni di un’espansione straordinaria e senza soste, stava vivendo un momento di profonda crisi». Una preda perfetta, dove piazzare le gru della cosca. Attraverso il suo puledro: Antonio Rocca, muratore trapiantato a Pietole. “King Kong” per gli amici. A ingolosire il boss, tanto da promuoverlo, è la sua amicizia con Antonio Muto, il re del mattone, assolto anche in appello dall’accusa di aver fiancheggiato le attività della cosca. Su Rocca, condannato a 26 anni di carcere, fanno luce le scarne testimonianze degli imprenditori vittime delle estorsioni, le inequivocabili intercettazioni ambientali e telefoniche e i resoconti dei tre pentiti Salvatore Cortese, Giuseppe Giglio e Signifredi, «personalità poliedrica e a tratti funambolica». Tutti ritenuti dai giudici assolutamente attendibili.
L’associazione mafiosa a Mantova, «siamo una comitiva, abbiamo guadagnato tanto, e dobbiamo dividere tanto» aveva messo radici, con i suoi connotati tipici: la forza di intimidazione, l’uso delle armi, l’uso di impartizioni e ambasciate, il vincolo gerarchico, il collegamento con la casa madre di Cutro, l’omertà delle vittime e il loro assoggettamento. Unica eccezione, a questo proposito, Matteo Franzoni, l’imprenditore di Curtatone autore di ben 14 denunce, che s’è presentato in udienza a testimoniare davanti allo sguardo di Grande Aracri puntato su di lui attraverso lo schermo.
Minacce e muscoli: questo lo schema di Rocca, battezzato secondo il rito della cosca. «È lui il mio capo, è lui che mi gestisce» ammette senza mezzi termini uno degli imprenditori taglieggiati, Giordano Boschiroli, che a un certo punto chiede all’uomo dei conti: «Ma cos’è una cupola questa qua?» Risposta affermativa. Rocca lo chiarisce a un altro imprenditore, Nicola Zamboni, poco propenso a cedere alle sue richieste esose. «In caso di mancato pagamento gli avrebbe buttato la benzina, lo avrebbe ammazzato in casa sua e l’avrebbe incendiato». Analoghi propositi nei confronti di Giacomo Marchio, «lo corichiamo quando lo dobbiamo coricare». Il muratore di Pietole è protagonista di una carriera segnata da alti, ospite di punte nella tavernetta di Cutro, e bassi, tanto da rischiare di essere “spogliato”, la peggior onta immaginabile, dopo essere stato sospettato di essersi intascato 20mila euro frutto di un’estorsione all’imprenditore Rocco Covelli, «la cui sottomissione inerme e consapevole alle intimidazioni è la più palese e emblematica dimostrazione di quello stato di assoggettamento alle volontà del sodalizio mafioso».
Rocca rischia la pelle, in quella circostanza, e lo capisce. Teme di diventare «la pecora con la brucellosi che va abbattuta». «Gli si son fatti gli occhi rossi, stava piangendo si è alzato e se n’è andato in un’altra stanza». La diatriba venne risolta nientemeno che al cospetto del boss cutrese, che sugli affari mantovani ha sempre l’ultima parola. E Nicolino, “lo zio”, “il geometra”, grazia il suo operaio prediletto. «Se andate d’accordo voi prendete in mano la città» si sente dire nel capannone di Rocca. L’ingerenza diretta del boss, scrivono i giudici, è una novità nel panorama della diffusione della ’ndrangheta fuori dalla Calabria. Un prototipo operativo inedito. «Una ’ndrangheta moderna, efficiente, dinamica, che ricorre alla corruzione, alle proposte di affari, dissimulando i propri tratti violenti ma che all’occorrenza non è restia a far ricorso alla sopraffazione, all’intimidazione e alla violenza».
Un quadro preciso, definito nei minimi particolari, che i ricorsi in appello già annunciati dai difensori dovrà provare a smontare.

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