Il caso del Divo Giulio: prescritto, non assolto

Un pamphlet dai magistrati che istruirono il procedimento Per ristabilire la verità e spiegare il “sistema” di Cosa Nostra

Si fa presto a dire “colpevole”. E si fa presto a dire “assolto”. Nel primo caso, spesso ci si indigna; ma nel secondo può capitare che un cinico sipario cali a coprire tutto: perché si dimentichi, si faccia finta di non sapere, si rimuova ogni brandello di memoria. Specie quando questa è maledettamente scomoda. Alla categoria degli assolti secondo vulgata, ma non assolti affatto secondo sentenze e testimonianze, appartiene di diritto Giulio Andreotti. Anzi, di questa “damnatio memoriae” alla rovescia – eliminare ogni traccia per assolvere, non per condannare – è il simbolo. E il processo cui è stato sottoposto per undici anni, la plastica rappresentazione.

Quelle vicende ce le ricordano oggi in un pamphlet asciutto, avvincente e inquietante, due magistrati che hanno combattuto in trincea contro la mafia, Giancarlo Caselli e Guido Lo Forte, all’epoca dei fatti rispettivamente capo della Procura di Palermo e procuratore aggiunto, i pm che nel marzo del 1993 riuscirono a portare a processo per collusione con la mafia Andreotti, protagonista di spicco della Dc e della Prima Repubblica, più volte capo del governo e più di una volta vicino al colle più alto.

La vicenda si chiuderà il 15 ottobre 2004 quando la sentenza definitiva della Cassazione non manderà Andreotti «assolto, assolto, assolto!» – come urla l’avvocato Giulia Bongiorno facendo di questo grido liberatorio il messaggio trasmesso da molti giornali e tv e divenuto convinzione diffusa; lo riterrà invece colpevole di associazione per delinquere fino al 1980, ma non perseguibile perché nel frattempo il reato è caduto in prescrizione. Prescritto, non assolto. E se lo scagionerà per gli anni successivi, lo farà con una formula non completamente assolutoria sottolineando che l’imputato «ha consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale e arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi». Eppure, per tanti Andreotti sarà considerato “assolto”, e colpevoli, secondo i metodi ben noti nel Paese dei corvi e dei veleni, diventeranno i pm che l’avevano messo sotto inchiesta... Solo un paradosso?

Venticinque anni dopo, ormai in pensione, Caselli e Lo Forte, tornano su quelle vicende anche perché, annotano amaramente, «quando se ne è parlato, lo si è fatto di solito per cancellare, nascondere o stravolgere i fatti». Ciò che sta a cuore ai due magistrati, infatti, non è solo il desiderio di ristabilire la verità e spiegare quel che hanno fatto e perché, quanto ricordare ciò che le carte hanno fatto emergere, il contesto in cui la storia si è dipanata, il sistema di «relazioni esterne con la società e lo Stato» affinato nel tempo da Cosa Nostra a conferma dell’esistenza di quel «poli-partito» trasversale – come lo chiamava Carlo Alberto Dalla Chiesa – che intreccia mafia e politica in un unico potere capace di infiltrarsi nelle istituzioni. Pensando a oggi, non solo a ieri.

Del resto, diceva Giovanni Falcone, «una delle cause principali, se non la principale, dello strapotere della criminalità mafiosa risiede negli inquietanti suoi rapporti con il mondo della politica». Lo aveva visto indagando, e pure sentito sulla sua pelle: lentamente delegittimato il pool che aveva voluto, bocciato nella corsa a capo dell’ufficio istruzione, sottoposto a mobbing, intimidito dal tentativo di attentato all’Addaura, lasciato solo e infine ucciso dalla mafia nella strage di Capaci del maggio del ‘92. E due mesi dopo toccherà a Paolo Borsellino. Ecco cosa può succedere quando un pm mette il naso in quel “poli-partito…”.

Dalle inchieste emerge insomma un quadro evidente di «scambi occulti e legami sotterranei tra il malaffare (mafia compresa) e settori del potere politico e del mondo imprenditoriale»; il racconto delle «modalità nascoste con cui alcuni segmenti della classe dirigente hanno gestito il potere». Caselli e Lo Forte la chiamano «criminalità dei potenti», un’alleanza scellerata capace anche di pilotare il consenso. E che avrebbe meritato dunque un’analisi molto attenta. Ma, concludono i due magistrati, «tutto ciò è mancato». E sperano, con noi, che questo libro riaccenda la fiammella di una riflessione libera e spassionata su quanto è successo. Perché, forse, ancora succede.



di Bruno Manfellotto

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