Il giovane scrittore e l’attrazione per la sua insegnante

Un gruppo di 7 ragazzi chiamato a narrare storie criminali E Antoine da subito è visto con sospetto dai compagni

La Ciotat, cittadina nel Sud della Francia, cambia volto e condizione sociale nella seconda metà degli anni Settanta, passando da cantiere navale, che dava lavoro a diecimila persone, a manutenzione di yacht. Da allora è un sito balneare.

L’atelier, il titolo di questo interessante “conte philosophique” che Laurent Cantet ha scritto con il suo collaboratore Robin Campillo, allude a un workshop di scrittura aperto a un gruppo di sette giovani, selezionati da educatori del cantone, e posti sotto la guida di una scrittrice di gialli, Olivia Dejazet (Marina Foïs). Lo spettro dei temi deve rievocare il cantiere navale, e intanto raccontare una storia criminale. Sì, un delitto, per la quantità di storie di genere che il cinema francese ha ambientato a Marsiglia e dintorni, un delitto perché sono tempi decisamente pervasi dai “demòni” di Dostoevskij. Lo spirito che aleggia sul film è quello del grande Fëdor, anche se le argomentazioni alla mano richiamano Lo straniero di Camus.

Di questi sette ragazzi, almeno quattro sono musulmani, figli di algerini, e s’infiammano se sfiorati dalle allusioni di coinvolgimento nei tragici eventi che hanno colpito la Francia. Nel gruppo vi è Antoine (Matthieu Lucci), che viene sospettato razzista, anti musulmano, per le descrizioni cruente che riporta nei primi assaggi di scrittura. Cerca di spiegarsi asserendo che chiunque uccida nella vita come nelle storie sui libri, di là delle giustificazioni che si attribuisca e/o gli attribuiscano, lo faccia gratuitamente, per il piacere di agire, per vincere la noia. L’insegnante gli va in soccorso, spiegando che non si scriverebbero più gialli o dirigerebbero più film, se l’Autore non si ponesse dal punto di vista dei personaggi “negativi”. Ed è questo accorgimento che il film fa suo, centrando l’interesse su Antoine, e scostandosi anche dalla scrittrice, che si volge al ragazzo per trarre ispirazione di idee e comportamenti per il “ribelle” del suo prossimo romanzo.

Viceversa, Antoine è attratto dall’affascinante 50enne che parla con l’eloquio parigino, la spia tra gli alberi mentre lavora al tavolo, o dalle rocce mentre fa il bagno con il suo editore. Se si accoda al gruppo ultrà del cugino per le esercitazioni con la pistola nei boschi, o presta ascolto agli ideologi dell’estrema destra, preferisce però isolarsi, alle loro feste si addormenta sul divano, e al mare si reca da solo. La sua maschera, sospettosa e ostile, accigliata e angosciata, è quella di chi percepisce il non senso dell’esistenza. Con i miti della forza e delle armi, con il vivere in disaccordo con il senso comune, Antoine progetta di aprirsi una via d’uscita, pensa all’omicidio o al suicidio. Si congeda con un’affermazione di orgoglio, sprezzante nei confronti del gruppo che l’ha rifiutato a priori, e dell’insegnante che voleva solo utilizzarlo.

Un film lucidissimo, di dialoghi sempre pertinenti e acuti, un ritratto di ragazzo vulnerabile ma riflessivo. Il viso di Matthieu Lucci, più vero del vero, entra di diritto nella galleria dei ragazzi terribili. Sul finale Cantet esce dal cerchio dostoevskiano, e dalla vocazione nichilista, con una decisione radicale. L’autore de La classe si conferma attento indagatore del mondo giovanile, e indica nel lavoro l’unica salvezza.

Alberto Cattini

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