La sconsolata rassegnazione di un artista nella Turchia di oggi

Sinan ha una vita grama: senza lavoro, deluso in amore, scrittore frustrato E non riesce ad affrontare il padre, dedito alle scommesse e che ama solo il cane

In originale, L’albero del pero selvatico, un film di Nuri Bilge Ceylan, personalità del cinema turco ed europeo, solito cimentarsi con tessuti narrativi di lunghezza inusuale, in questo di 188 minuti. Da ammirare senza condizioni la sua poetica e la sua morale, tenendo presente che insiste su ampi silenzi, o dialoghi densi, e si confronta con le miserie di personaggi contraddittori.

Da poco laureato, Sinan torna a casa in una città non lontano dalla mitica Troia. Il padre, maestro di scuola un tempo onorato, perdutosi nel vizio delle scommesse, si è indebitato e ha ipotecato la casa. I nonni lo aiutano come possono, ma l’esistenza è grama per la madre costretta a fungere da baby sitter e la sorella, che va ancora a scuola. Il padre, che stravede solo per il cane, continua a sperperare il mensile, e a scavare un pozzo in un terreno brullo.

Senza lavoro, Sinan ha nella borsa un manoscritto (il titolo del film), che i possibili mecenati respingono perché privo di valore turistico, una meditazione sul tempo e la natura. L’unica alternativa può essere per lui l’insegnamento, se riuscisse a superare l’esame di concorso cui partecipano 300mila laureati, destinati ai diseredati paesini dell’est, oppure l’arruolamento nei reparti antisommossa con l’obiettivo di manganellare operai o studenti.

Sullo sfondo si distende la città che vorrebbe cancellare: un mondo nel quale la statua lignea del cavallo di Troia viene utilizzata (in sogno) come rifugio, per sfuggire all’autorità che l’insegue. Un ragazzone che incede come un orso, e al padre non osa contrapporsi apertamente. E con gli altri è lo stesso: dalla ragazza di cui era infatuato, e dal rivale che l’aveva conquistata, riceve ferite morali e fisiche; dal sindaco e dall’imprenditore cui si rivolge, benevoli stime e sicuri rifiuti; dai due iman che parlano a lungo del Corano subisce i compromessi senza obiettare. Unico momento in cui esterna il pensiero, è nel dialogo con uno scrittore affermato. Nel frangente esplode l’arrogante frustrazione di Sinan, la pochezza intellettuale di chi investe di argomentazioni “romantiche” chi gli è distante per qualità letteraria ed esperienza delle cose. La sua impudenza porta però lo scrittore a rivelare l’effettiva condizione di un artista nella Turchia d’oggi, di resa all’esistente, di sconsolata rassegnazione. Donde l’allegoria del “pero selvatico” con cui padre e figlio si identificano, storto e insignificante, ma anche con dei buoni frutti.

La musica di Bach (arrangiata da Stokowski) si distende sulle terre, i sentieri, il mare, e contribuisce a sorreggere e a vestire gli esseri umani. Una sola mediocrità, una comune sconfitta, e la pietà, in cui ognuno può specchiarsi. Un grande autore Ceylan, in sceneggiatura anche sua moglie Ebru. —

ALBERTO CATTINI

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ALBERTO CATTINI

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