Menage a trois stile Casablanca nella Francia invasa dai tedeschi

L’ambientazione è però quella contemporanea, come se l’incubo fosse tornato Ne scaturisce un mélo di grande intensità e di potente inquietudine

Nell’incipit de La donna dello scrittore, tra un echeggiare di sirene della polizia, Georg (Franz Rogowski), tedesco che milita nella resistenza, accetta di consegnare due lettere a uno scrittore, che in un albergo di Cassis (vicino a Marsiglia) è in attesa d’imbarcarsi per il Messico. Sempre a Cassis deve condurre anche un partigiano ferito. Che sta succedendo? Abiti dei personaggi, divise militari e mezzi di trasporto sono quelli dei giorni nostri, ma l’Europa è di nuovo in guerra: i tedeschi hanno invaso la Francia e preparano una grande retata di ebrei e gente comune. La sfasatura fra arredi ed eventi suscita un alone semantico in cui la Storia passata intesa come un lungo incubo sembra ripresentarsi appena aggiornata, o indicare che tutti i conflitti si somigliano.

La scena prosegue nel sangue. Il succitato muore in viaggio, e lo scrittore si suicida in camera. Il movente non è politico, ma sentimentale. La moglie gli ha scritto d’averlo lasciato dopo l’internamento in un lager. Evaso, ha cercato la morte nell’albergo in cui l’aveva amata (testimonia l’affittacamere). Georg sfrutta l’inattesa situazione presentandosi al consolato messicano con la lettera dello scrittore, ne prende l’identità ed è fornito del visto. Per le strade di Cassis s’aggira anche la moglie del morto, Marie (Paula Beer), alla ricerca del marito, e del lasciapassare che la riguarda. Ed è in compagnia dell’amante (Godehard Giese), un medico che ha un ingaggio per un centro ospedaliero in Messico. Una situazione a tre che sembra rispecchiare quella del celebre Casablanca (1942) di Curtiz.

In originale, il film s’intitola Transit e si ispira al romanzo che la tedesca Anna Seghers (1900-1983) scrisse in Messico nel 1941 (pubblicato nel ’44, in Italia nel 1985). Lo ha sceneggiato e diretto Christian Petzold, che con i due precedenti, La scelta di Barbara e Il segreto del suo volto, ha realizzato una trilogia sul nazismo: sulla nozione di sacrificio e responsabilità, e le infedeltà del cuore che ne sono una straziante componente. Non dunque un feuilleton come Casablanca, ma un complesso dramma di coscienze poste di fronte al miraggio della fuga e della sopravvivenza, più forte delle relazioni in corso, ma con ritorni di complessi di colpa. E c’è un coup de foudre di Georg al vedere il volto di Marie che gli batte più volte sulla spalla pensando che sia il coniuge, offuscando il senso di paternità sfiorato con il bambino del partigiano morto. Senza dire delle figure che escono dal coro dei disperati che vorrebbero imbarcarsi, e prendono un assolo come la signora ebrea (Barbara Auer).

In un mélo di grande intensità, di potente inquietudine, la luce della Storia azzera ogni rovello, ogni strascico d’amore. —

ALBERTO CATTINI

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ALBERTO CATTINI

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