Gazzetta di Modena

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Modena, una ricerca modenese su Islam e radicalizzazione

di Andrea Ancarani
Modena, una ricerca modenese su Islam e radicalizzazione

La tesi di Michele Groppi è stato giudicato lo studio europeo più completo «Non si sottovaluta il fenomeno, i rischi ci sono ma ci si deve parlare di più»

21 ottobre 2017
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MODENA. Genovese di nascita, modenese di adozione e cittadino globale allo stesso tempo. Studente modello al Selmi e poi a Stanford dove ha conseguito la laurea in Relazioni Internazionali, poi master a Tel Aviv in sicurezza e dottorato in Studi della Difesa al King’s College. Pallavolista modello, ha giocato per il Verona in A1 e il Cantù in A2 mentre conduceva una ricerca sulla radicalizzazione islamista in 15 città italiane. Sono queste le prime parole che vengono in mente per descrivere Michele Groppi, autore, con la propria tesi di dottorato, della più completa ricerca a livello europeo sulla radicalizzazione islamista in Europa.

Perché la sua ricerca è la più completa?

«La mia ricerca prende in esame un campione statisticamente significativo con 440 questionari e 200 interviste. In Italia non si era mia fatto uno studio del genere su un argomento attualissimo e che continuerà a rimanere con noi. Il mio scopo è anche quello di dare voce ai tanti musulmani italiani e al loro rapporto con dinamiche di integrazione, discriminazione e razzismo».

Quali sono i risultati principali della sua ricerca?

«La mia ricerca dimostra che noi non siamo come la Francia, la Germania o il Belgio, ma la radicalizzazione esiste ed è significativa. E, seppur la stragrande maggioranza degli individui analizzati abbia rigettato categoricamente la violenza in nome della fede, il 24% del campione ha detto che la violenza in nome di Dio è giustificabile, mentre il 33% si è dichiarato favorevole a punire chi offende l’Islam. Il problema esiste e le recenti sfide come il terrorismo, l’immigrazione, l’integrazione ci richiedono una maggiore conoscenza di questi fenomeni».

C’è quindi un problema concreto di radicalizzazione islamista?

«In Italia il 43% dei partecipanti alla ricerca ha risposto negativamente, il 30% “Sì ma è minimo e esagerato dai media” e solo il 10% ha risposto “Sì”, questo vuol dire che non c’è una percezione del pericolo immediato ma che non è neanche un fenomeno marginale. A questo proposito un dato importante che emerge dalla ricerca è che non c’è sufficiente dialogo tra le culture, dobbiamo fare ponti culturali da ambo le parti per capirci e accettarci così da evitare odio e radicalizzazione.

La sua ricerca ha evidenziato rischi in base alla territorialità?

«Un dato importante che emerge dalla ricerca è che le nostre periferie non sono le “banlieue” francesi o le periferie belghe, anche se nel caso italiano Roma e Milano sono statisticamente le città più radicali. Tuttavia bisogna prendere questi risultati con le pinze poiché la variabile geografica è solo marginalmente significativa, infatti non abbiamo rilevato alcuna correlazione tra nessun indicatore sociale e sostegno alla violenza».

Quali sono altri suoi prossimi appuntamenti e progetti?

«Sono parte del progetto di “Itstime” dell’Università Cattolica di Milano con cui stiamo cercando di espandere la ricerca anche a livello europeo. Bisogna replicare lo studio il più possibile in Europa, non per porre sotto controllo una popolazione, ma per cercare di analizzare in maniera oggettiva e critica il fenomeno e per creare i giusti anticorpi. Tra le misure necessarie per prevenire la radicalizzazione non può mancare il dialogo tra le culture e un confronto critico e costruttivo nelle scuole, in famiglia e a livello accademico senza strumentalizzazioni o ideologie. A febbraio stiamo organizzando una conferenza al Selmi e al Corni per parlare di questi temi, per mettere i ragazzi davanti ai numeri. Dobbiamo ancora capire bene cos’è il multiculturalismo e farlo funzionare perché puo’- e, aggiungo, deve - funzionare».