Gazzetta di Reggio

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Quando Corghi svelò l’arsenale in mano ai gruppi Dc

di Andrea Montanari
Quando Corghi svelò l’arsenale in mano ai gruppi Dc

Domani mattina i funerali di un simbolo reggiano del ’900 Fra le sue rivelazioni la tensione nel dopoguerra con il Pci

09 ottobre 2017
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REGGIO EMILIA . È comprensibile che le ricostruzioni, le leggende, i “si dice” si concentrino maggiormente sul Corrado Corghi degli anni Sessanta e Settanta, sulle sue amicizie e missioni sudamericane, sugli anni di piombo e sulla strategia della tensione. Corghi, i cui familiari ieri mattina hanno ricevuto la visita del ministro Graziano Delrio – e i cui funerali si svolgeranno domani mattina con il corteo funebre in partenza dalle 10.30 dalla camera ardente del nuovo cimitero di Coviolo diretto alla chiesa di San Pietro, dove si svolgerà la messa alle 11 – in quegli anni ebbe infatti un ruolo defilato forse, ma centrale politicamente. Gli storici devono ancora però fare luce a pieno su tutte quelle vicende; come spesso accade in questi casi, per comprenderne allora al meglio la figura occorre fare un passo indietro di un decennio e soffermarsi sul Corghi segretario provinciale della Dc. Un ruolo delicatissimo nella Reggio roccaforte del Pci, ruolo che il politico reggiano ricoprì con abilità per quasi tutti gli anni Cinquanta, in conflitto molto spesso con lo stesso vescovo Beniamino Socche, figura anch’essa ingombrante quanto affascinante.

Il clima che si respirava in città era infatti assai teso e la paura di un “colpo di mano” da parte comunista molto sentita.

Nell’ottobre del 1950, per fare un esempio, il presidente della Coldiretti di Reggio, Annibale Brunelli, scriveva a Corghi segnalando come fosse «credenza di molti che le province di Modena e Reggio, e l’Emilia in generale, costituiscano la roccaforte del Pci tal ché questa regione, quando fosse giuridicamente riconosciuta, diventerebbe la prima repubblica sovietica d’Italia e potrebbe ben servire come modello per le altre».

È Corghi stesso, in una intervista a Repubblica nel 1992, a sostenere d’altronde apertamente che «eravamo armati, io allora ero a Roma ma so bene cosa succedeva nella mia Reggio Emilia. Non si trattava di un’iniziativa isolata, esisteva una direttiva nazionale». E aggiungeva: «Non dico tutti i partigiani cristiani, ma un gruppo aveva organizzato l’autodifesa armata. La Dc ha sempre cercato di non ritenere necessari quei gruppi ma c’era chi li teneva presenti, nel mondo ecclesiastico».

Corghi si trovava insomma a gestire una situazione per molti versi incandescente, uno scontro frontale fra Pci e Dc che rischiava di trasformarsi, da un momento all'altro, in vera e propria guerra civile.

Sarà ancora una volta Corghi, si aggiunga, a dover allontanare, per non dire espellere, dal partito, su input di Fanfani, il suo vice segretario provinciale, quel Franco Boiardi (che sarà comunque suo fraterno amico per tutta la vita), figura anch'essa “di confine” e carica di fascino, reo di aver quanto meno sminuito il ruolo svolto dal Pci nei tragici giorni di Colombaia di Carpineti. A Colombaia, infatti, il 26 marzo 1955, nell’osteria “Vezzosi”, il segretario della sezione Dc di Casina, Afro Rossi, e il presidente degli uomini di Azione cattolica di Casina, Giovanni Munarini, rimangono uccisi da alcuni colpi di fucile. Gravemente feriti sono Gianpio Longagnani, segretario della Dc di Vezzano, e Umberto Gandini, rappresentante del Pli di Carpineti. Chi ha sparato è Guerrino Costi, mezzadro ed ex partigiano, iscritto alla federazione locale del Pci; nella sua abitazione viene rinvenuta l’arma del delitto, un fucile inglese residuato di guerra.

Corghi si trova allora fra le mani un complicato caso politico di portata nazionale e i riflettori sono puntati su di lui, su di lui il grave compito di condannare senza remore gli omicidi evitando però di aizzare l'odio fra fazioni. La guerra è finita da dieci anni ma le ferite sono ancora aperte e i conti ancora molti da saldare.

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