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Provincia rossa. Sì, ma ogni tanto

Stefano Scansani
Provincia rossa. Sì, ma ogni tanto

Dal rubrum Iotti al rosa Delrio, passando per il capitalismo cooperativo

05 novembre 2017
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REGGIO EMILIA. Fuori dalla nostra provincia la domanda è dietro l’angolo: a Reggio Emilia c’è ancora il comunismo? La mia risposta opta per l’incerto: sì, ma ogni tanto. Nel senso che mentre all’esterno resiste un immaginario retorico reggiano che nel tempo è diventato inossidabile, all’interno la bandiera rossa s’è scolorita e ridotta a un pezzo di storia.

Che ha due difetti. Molti nati nell’incubatrice del comunismo oggi hanno pudore di dichiarare di essere stati comunisti o anche solo affascinati dal comunismo. Molti militanti hanno riplasmato il comunismo ideologico con due specialità.

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Le due specialità reggiane: il pragmatismo amministrativo, il capitalismo cooperativo. Cosicché è nato e così è morto il marxismo autoctono. Morto? Certamente stecchito, almeno quello che stava alla guida dei Comuni, della Provincia, della Regione, e quell’altro che governava la cooperazione. È cambiata la politica, è mutata la società, il partitismo s’è squagliato. Altro mondo.

Con un occhio al passato prossimo sembra inverosimile che a rappresentare oggi la Reggio Emilia rossa nel quadro nazionale sia Graziano Delrio. Che secondo i raggi x più rudi è considerato un democristiano moderno di sinistra. Dal rosso Iotti al rosa Delrio. È inevitabile considerare il Pd erede per successione del Pci, e non riconoscerlo. È inevitabile il quesito: ma il comunismo a Reggio esiste ancora? Dalla domanda all’inchiesta il passo è breve.

La Gazzetta da oggi propone una serie di approfondimenti aperti anche (e soprattutto) al contributo, alle testimonianze e alle opinioni dei lettori. L’indirizzo a cui inviare i vostri pensieri è lettere.re@gazzettadireggio.it. L’iniziativa coincide con il centenario della Rivoluzione d’Ottobre, quindi l’assalto al Palazzo d’Inverno di Pietrogrado e la presa del potere dei soviet.

Giorno 7 novembre 1917. Per molti motivi un secolo dopo Lenin, la storia del comunismo occidentale o - berlinguerianamente scrivendo – dell’eurocomunismo, a Reggio ha trovato il luogo più fertile e la vita più longeva. Le domande sono automatiche: a Reggio c’è ancora il comunismo? Ci sono ancora i comunisti? Che cos’è oggi il comunismo, oppure a quando e come è databile il suo decesso per consunzione? Abbiamo realizzato le inchieste con il preciso obiettivo di occuparci del presente, di stare alla larga dal sospetto di formule nostalgiche, enfatiche o critiche.

Abbiamo anche preso in considerazione la potenza dialettica dell’aggettivo “comunista”, arma contundente che qualcuno, ancora nel 2017, vuole equiparare all’aggettivo “fascista”. Il dualismo è una malattia italiana. “Fascista sarà lei”. “Mai stato comunista”. Ripeto, i comunisti ci sono, ma ogni tanto. Così accade dal 12 novembre 1991 (fra una settimana sarà il ventiseiesimo anniversario).

Cioè dalla svolta della Bolognina impressa a sorpresa da Achille Occhetto con la nascita del Pds: fine della “grande illusione”, inizio del travaglio e dell’ansia di scissione partitofaga che polverizza la sinistra dalla fondazione del Pci alla stagione renziana. Ora il comunismo è residuale, ogni tanto saltabecca e riemerge con i suoi attributi per le feste civili comandante e i combattimenti umanitari, per un’etica di fondo. È proprio così?

Nella sua importante riflessione nella pagina a fronte Massimo Storchi analizzando il Pci scrive acutamente: “Un partito vissuto quasi 70 anni esatti che ha dato un contributo decisivo alla democrazia italiana, in un paese che ebbe la fortuna “di avere i comunisti senza avere il comunismo”. Ecco, Reggio Emilia, invece, lo ebbe. Abbastanza.

Stefano Scansani
s.scansani@gazzettadireggio.it
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