Gazzetta di Reggio

«Se vogliamo salvarci ricominciamo a capire il passato»

di Martina Riccò
«Se vogliamo salvarci ricominciamo a capire il passato»

Il monito di Andrea Carandini, presidente del Fai «Lo Stato deve creare posti di lavoro con la cultura»

09 maggio 2018
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REGGIO EMILIA. Per guardare lontano non basta avere una buona vista, bisogna salire sulle spalle dei giganti. «E se ci sembra che i giganti non ci siano, andiamo a cercarli nel passato, perché lì ci sono». Andrea Carandini, presidente del Fai, venerdì pomeriggio (ore 18) chiuderà la rassegna “Tutto è contemporaneo. L’attualità dell’antico” organizzata in occasione di “On the road. Via Emilia 187 a.C.-2017” visitabile fino al 1° luglio al Palazzo dei Musei. Intervistato da Marco Carminati, giornalista de Il Sole24Ore, commenterà la mostra archeologica e terrà la conferenza “La casa degli Aemilii Scauri”, «un’appendice romana al progetto reggiano».

Già dal titolo la mostra rivela una fusione tra passato e presente, una sorta di intreccio tra piani temporali apparentemente lontani. Che ne pensa?

«Ne sono piacevolmente colpito. Guardare al passato è fondamentale, soprattutto adesso. L’Italia, infatti, in queste ultime due generazioni ha subito la folata del presentismo. Che significa ritenere che qualunque cosa avvenuta prima del presente non abbia nessuna utilità e nessun significato, e che la vita possa essere agita, sia fisicamente che mentalmente, nella ignoranza. Questa concezione è evidente anche nella classe politica, che non ha il minimo spessore storico né la conoscenza della politica come stratificazione. I nostri politici improvvisano. Ma è come volere inventar una nuova cucina senza saper cucinare; può andare bene, certo, ma anche molto male. Le cose si possono inventare ma sulla base della tradizione: conoscere ciò che è avvenuto prima ci permette di buttare via quello che non va e usare quello che serve».

Il “presentismo” rischia di cancellare le nostre radici?

«Il rischio è cadere negli errori già commessi in passato. Come hanno risolto certi problemi le società che ci hanno preceduti? Se ci guardiamo indietro possiamo capirlo e imparare. Alcune decisioni sono state rovinose, pensiamo al Fascismo, che pur cercava di rispondere ad alcune necessità del tempo, e non vanno replicate».

Come si può rendere il passato interessante?

«Il miracolo è che per conoscere il passato non serve aver vissuto nel passato. Noi siamo perfettamente in grado di capire gli errori di Caligola, anche se siamo nati nel 1900 o negli anni 2000. Ma mentre un tempo ciascun uomo civile aveva un’idea dello sviluppo e del cammino dell’umanità almeno tra Omero e il suo presente, oggi le persone – i giovani soprattutto – vivono come se tutto nascesse qui e ora. Purtroppo questa approssimazione e questa superficialità sono indice di profonda decadenza».

Parla della politica?

«Sì, ma non solo. Senza Omero, la Bibbia, i miti non possiamo capire neanche la storia dell’arte dell’Ottocento. Non riusciamo a guardare oltre il nostro limite perché non troviamo giganti su cui salire, ma se non li troviamo è perché non sappiamo dove cercarli. Ci manca la consapevolezza, e ci troviamo in grossi pasticci perché i problemi della società si fanno sempre più grandi e noi diventiamo sempre più sempliciotti».

La (ri)scoperta della Via Emilia, in questo senso, può servire come esempio per tirarci fuori dalle sabbie mobili?

«È una lezione per tutti. Ci permette di vedere cosa è stato fatto dai nostri antenati e soprattutto lancia un monito: le infrastrutture territoriali sono un affare nazionale che lo Stato non può e non deve delegare ai poteri locali, mossi da interessi particolari».

A proposito di Stato, è sufficiente quello che si sta facendo per il patrimonio culturale e ambientale del Paese?

«Lo Stato deve perfezionare la sua funzione tradizionale, che è quella di esercitare la tutela, e deve migliorare nella funzione nuova, varata istituzionalmente, che è quella valorizzare i suoi beni. Ma la parte che lo Stato non riesce a fare, perché obiettivamente il patrimonio artistico, culturale e ambientale dell’Italia è pressoché infinito, deve essere presa in carico dalla società civile».

Come?

«Per esempio attraverso il Fai, che da una parte stimola lo Stato a rispettare i suoi compiti, e dall’altra è lo strumento concreto del cittadino. Gli italiani sanno che quando versano 3 euro o si iscrivono al Fondo, questi soldi vengono tradotti in segnalazioni, restauri, manutenzione ed eventi nei quali la bellezza del Paese viene restituita al pubblico. È il contrario di un’idea assolutamente statalista, ma non è anti-statalista; è una visione realistica delle cose: lo Stato non è onnipotente, e allora anche noi cittadini dobbiamo rimboccarci le maniche. Però c’è un ma».

E cioè?

«La parte attualmente affidata alle associazioni o al Fai dovrebbe essere sfruttata per creare lavoro e dare sbocco ai giovani. Come? Per esempio dando in gestione a start up e a gruppi che abbiano qualificazioni beni dello Stato, ma anche locali o privati che non sono valorizzati. I luoghi non vanno solo aperti: bisogna evocarne lo spirito, trasmetterlo con il cervello e con il cuore. In questo la società civile può fare moltissimo, sia senza profitto sia con il giusto guadagno per far lavorare e vivere bene i giovani».

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