Genova

Dalla Chiesa: "I giovani si riprendono la piazza atto d'accusa ai politici"

Il sociologo e scrittore saluta positivamente la ribellione contro l'alternanza scuola-lavoro

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Tornano in piazza, gli studenti: per dire il loro no all'alternanza scuola-lavoro che sembra loro solo una perdita di tempo senza sviluppi reali per il futuro, come ha scritto Luca Borzani su Repubblica. Ma c'è anche dell'altro, in questo risveglio collettivo dei millennials accusati troppo spesso di essere apatici e lontani dalle scelte concrete? Una voglia di piazza, di tornare ad essere protagonisti delle decisioni che li riguardano? Nando dalla Chiesa, sociologo, scrittore, docente universitario e presidente onorario dell'associazione Libera contro le mafie, i ragazzi li conosce bene. E saluta positivamente la loro ribellione contro quel pasticcio che è l'alternanza scuola-lavoro, ma non solo: «Perché i ragazzi li trovi in piazza ogni volta che c'è qualcosa che li tocca, almeno moralmente, da vicino. E sanno stare insieme e darsi da fare anche in silenzio, come dimostrano con le reti di volontariato».

Nando dalla Chiesa, vede un significato in questo riempire le piazze da parte degli studenti? Si può pensare ad un nuovo movimento di protesta giovanile?

«Questo lo si vede sempre dopo. Fiammate ce ne sono state, la più lunga è stata la Pantera , poi c'è stata l' Onda, le altre si sono progressivamente spente. La scuola è sicuramente un luogo fondamentale, ma ricordiamo che tra i 100 o 150 mila che il 21 marzo si sono trovati in piazza per la giornata contro le mafie, gli studenti erano la maggioranza, a Genova come altrove. Allora non è vero che non ci sono più, ma danno invece sempre un alimento alle forme di impegno e ricerca di diversità che li contraddistingue. Hanno bisogno di contare, di dire la propria parola su ciò che li riguarda da vicino».

In questo caso, la scintilla è stata la necessità di dire la loro sull'alternanza scuola-lavoro, molto propagandata e poco apprezzata. Lei cosa ne pensa?

«L'alternanza è impraticabile. Gli studenti sono costretti a finti lavori, è una cosa un po' pasticciata che impone sforzi enormi di programmazione alla scuola e ai ragazzi stessi, un di più di cui non capiscono la ragione. Non ti insegnano a fare il parrucchiere, tenere un registro contabile o fare un giornale, in quelle ore, ma magari li impegna in attività generiche, senza interesse. L'alternanza viene percepita come un abuso della loro disponibilità».

Dalla Chiesa, lei ha citato l'esperienza di Libera e la mobilitazione dei giovani: eppure anche il problema delle mafie non può sembrare lontano? Cosa ne sanno, i ragazzi?

«I ragazzi sono sensibili a quello che li tocca moralmente da vicino. Non sanno magari che la mafia non è solo al sud, anzi, ma si mobilitano comunque in ogni parte d'Italia, e lo fanno generosamente e vogliono saperne di più».

Lei, attualmente titolare della cattedra di Sociologia della Criminalità organizzata alla Statale di Milano, ha una lunga esperienza di docente. Vede differenza tra i millennials e i ragazzi degli anni '90, ad esempio, ai tempi del movimento della Pantera?

«Non ci sono grandi differenze, a mio vedere, anche se alcune si trovano nel modo di pensare su certi argomenti, in particolare la politica, che li lascia molto scettici: l'interesse per alcune formazioni politiche magari dura un anno, poi restano delusi. E allora si costruiscono le loro forme di impegno, magari insegnare la lingua agli stranieri, scendere in strada tutti insieme per ripulire la città, aiutare i bambini svantaggiati. Un impegno silenzioso che ridefinisce il loro rapporto con la politica, messa sotto accusa senza eccezioni. In fondo il risultato del referendum costituzionale del 4 dicembre, con l'80% dei giovani sotto i 24 anni che ha votato ‘No', è stato un loro modo non di vendicarsi, ma di affermare il loro parere: in un certo senso una cosa non prevista, visto che la proposta de referendum voleva essere di ringiovanimento della politica».

Professore, ci sono stati commentatori che hanno salutato le manifestazioni degli studenti come i prodromi di un nuovo '68, a cinquant'anni dall'originale. Lei che ne pensa?

«Ma no! Avere il '68 come punto di riferimento sarebbe come ripartire dalla prima guerra mondiale ad ogni ipotesi di conflitto. Forse chi lo dice, ed era giovane allora, vorrebbe rivedere quello stesso spirito nei propri nipoti. Ripeto, li vediamo in piazza e non bisogna aspettarli solo lì, ma dove sono realmente e noi non ci accorgiamo di loro».