Genova

La lezione attuale di don Balletto

Carta Bianca

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È scomparso dieci anni fa Don Antonio Balletto. E alla città pesa ancora l’assenza della sua voce sempre pacata ma culturalmente forte e mai conformista.
Perché Balletto è stato davvero uno degli ultimi buoni maestri capaci di ricordare che il non vivere come sudditi o burattini implica il “gran dovere di pensare, pensare bene, pensare insieme”. Che la “ pestilenza del servilismo” intellettuale o morale produce solo cinismo e indifferenza. Cioè svuota non solo la fede ma avvilisce la nostra coscienza e la nostra vita civile. Mentre la nostra società sempre più simile a una tela strappata ha bisogno di aghi per ricucire e non di forbici per tagliare e dividere. Non aveva timori verso i poteri Don Balletto.

Come non li aveva nell’opporsi a una politica che si stava riducendo a “casta” o alle mode e ai luoghi comuni. A quel pensiero semplificato e plastificato che riduceva la cultura a effimero e irrideva la dimensione della conoscenza, dell’avere al centro la dignità dell’uomo, il valore della comunità, del divino per chi era credente. Il suo annuncio cristiano era profondamente legato all’umano e se il suo essere sacerdote era ben radicato nella tradizione era al contempo esente da ogni clericalismo e sempre in forte sintonia con le esperienze di rinnovamento del linguaggio e dei comportamenti della Chiesa. Cosa che gli era costato un volontario allontanamento da Genova negli anni di Siri. La logica dei muri e delle chiusure era insopportabile per Balletto. In un mondo sempre più connesso ma anche a rischio di profonde lacerazioni, per lui era ormai inevitabile il “meticciato dei saperi”, la contaminazione dei linguaggi, la necessità di costruire ponti. Intuendo nella crisi delle grandi ideologie del novecento il nuovo ruolo pubblico delle religioni e l’uso politico delle religioni, aveva portato la “Marietti”, la sua casa editrice, ad aprirsi alla grande cultura ebraica e islamica diventando insieme un precursore e un reale interlocutore del dibattito filosofico tra le due sponde del Mediterraneo. Era, come diceva, il cercare di superare il tempo del dialogo per praticare “ il tempo della condivisione e della co- costruzione” prima che si affermasse il tempo della guerra e delle barbarie. Contemporaneamente teneva lezioni di teologia a San Fruttuoso perché agli accademismi provinciali di tanta parte del mondo culturale genovese preferiva rispondere al bisogno di conoscenza delle persone comuni e collaborava con Don Luigi Traverso il parroco degli ultimi, in una pratica costante dell’essere per gli altri. Così come aveva accettato di presiedere la Federazione Solidarietà e Lavoro.

Di misurarsi, lui uomo di studi e di pensiero, Grifo d’oro della città di Genova, con un’attività concreta di organizzazione solidale e di azione sociale. La stessa che portava nel suo studio stracolmo di libri e immerso nella musica di Mozart un flusso continuo di persone, di imprenditori e politici come di poveri e immigrati. Di credenti e non credenti. Figura anche severa e scomoda quella di Antonio Balletto tanto da essere bruscamente allontanato dalla “ Marietti” da improvvisi nuovi azionisti che volevano mettere fine alla sua linea editoriale e dallo sbattere la porta della Fondazione Carige per un duro e aperto contrasto con i vertici. Una vicenda, quest’ultima, che forse dovrebbe essere riletta con gli occhi dell’oggi. Perché sapeva indignarsi e non aveva remore a rompere imbarazzati o complici silenzi. Così come davanti allo sciupio costante di De Andrè molti dovrebbero riascoltare il suo commosso intervento ai funerali del cantautore. Era la capacità di volare alto e al tempo di essere profondamente terreno, di essere, insieme, padre autorevole e fratello affettuoso. Anche per questo oggi mancano a tanti le sue parole e il suo esempio. A partire da come per un decennio aveva sopportato il male che gli logorava dolorosamente il corpo. Manca la sua lezione per cui approcciarsi con il mondo globalizzato implica cambiare modelli mentali consolidati, costruire uno schema diverso dell’universo e della nostra stessa storia, del rapporto con l’altro. Manca il suo rigore civile, esente da ogni forma di spettacolarità e dalla ricerca di facile consenso, la sua autonomia intellettuale, il suo costante ricondurre alla coscienza e alla ragione. Perché ciò che è cresciuto in questi dieci anni è un linguaggio cialtrone, la promozione dell’odio e del rancore, l’aumento delle diseguaglianze e delle povertà, materiali ed esistenziali. Forse il modo migliore per ricordarlo, nel momento in cui c’è chi brandisce il Vangelo come arma, è proprio quello di non accettare la cultura di plastica, di continuare a leggere la complessità e le contraddizioni del nostro vivere sociale. Del non adeguarsi. Provando a tenere insieme speranza e conoscenza critica. Sono anche le idee su cui, in una stagione ormai conclusa, si era rifondato Palazzo Ducale a cui Don Antonio aveva non poco contribuito e che hanno sorretto le attività del Centro Studi a lui dedicato. E sarebbe buona cosa se proprio il decennale della morte diventasse, come forse avrebbe voluto, un “ esame di coscienza” sul presente per tutti coloro che lo hanno amato, cercato, seguito.