Genova

Un 25 aprile che guardi al futuro

CARTA BIANCA

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Cosa ci può dire questo 25 aprile? Perché non trovare delle ragioni nuove vorrebbe dire non guardare all’ Italia reale.
Quella che nel voto di poco più di un mese fa ha espresso una domanda di discontinuità profonda rispetto alle culture politiche tradizionali e forse consegnato il governo a un partito che fonda sulla xenofobia il proprio consenso.
Limitarsi a una liturgia, alla commemorazione di una ribellione che sembra non trovare più memoria nel paese, o peggio, rinchiudersi in un fortilizio ideologico generazionalmente sempre più anziano non sarebbe buona cosa. Perché vorrebbe dire il proseguire sulla strada della lenta estinzione.
Dell’appannamento sostanziale, al di là delle retoriche, della vicenda resistenziale. Forse sarebbe invece utile chiedersi dove si è sbagliato. Come è possibile che l’antifascismo sia letto come componente culturale di un sistema che appare a così larga parte della nazione ampiamente insopportabile e distante?
Cosa ha portato molti italiani, in particolare quelli più fragili economicamente e più colpiti dalla crisi, a sdoganare di fatto il neofascismo e, più in generale, a trovare nell’ostilità verso gli stranieri, se non in forme di vero e proprio razzismo, un nuovo collante sociale?
Ecco questo 25 aprile dovrebbe concentrarsi intorno a queste domande.
Così come per altro molti anni fa chiedeva Norberto Bobbio affermando che la celebrazione della Resistenza doveva rappresentare una sorta di esame di coscienza laico sul presente e la consapevolezza della grande distanza tra gli ideali partigiani e l’Italia contemporanea. Provare a trovare risposte adeguate non è certo facile soprattutto quando si sconta un tempo ormai troppo lungo di sostanziale autoreferenzialità culturale e di incapacità di leggere il mutamento sociale. Certo pesa un ventennio di delegittimazione dell’esperienza resistenziale, l’elogio della “zona grigia”, le riletture sul fascismo di Salò. Ma non è comunque sufficiente. Anche se a quell’offensiva condotta in primo luogo dalla destra berlusconiana ma fatta propria anche da componenti della sinistra “modernizzatrice” non si sono date risposte adeguate, spesso privilegiando una astratta e astorica “epopea partigiana”, accentuando il distacco tra ricerca storica e una memoria progressivamente impoverita e insterilita, bloccata nel rito. La memoria di una comunità, vale la pena di sottolinearlo ancora una volta, non si conserva se non è legata alla vita, se non è strumento utile per orientarsi nel mondo, per produrre valori e coscienza che riguardano l’oggi. E da tanto ci si è invece progressivamente chiusi, accettando di essere sempre meno, illudendosi che un patrocinio istituzionale valesse come partecipazione collettiva, coralità civile.
Che un linguaggio sempre più invecchiato e a tanti incomprensibile fosse in grado di essere anche comunicazione. Ma probabilmente l’errore più grave è stato un altro. Aver separato antifascismo da difesa dei diritti sociali.
Non aver perseguito davanti agli effetti feroci della crisi quell’idea di cittadinanza descritta dalla nostra Costituzione. Non aver compreso che l’aumento delle diseguaglianze, delle povertà, la perdita di speranza minavano la legittimità e la credibilità dell’antifascismo, lo riducevano a un orpello ideologico di una democrazia in crisi. In crisi formale e sostanziale. Da qui la perdita di una capacità di attrazione, la lontananza crescente delle generazioni più giovani, l’indifferenza se non l’ostilità nelle periferie dove crescevano paure, rabbia, guerre dei poveri con i più poveri. Perché se l’antifascismo viene assimilato con la conservazione dell’esistente deperisce e si svuota. Ma è quello che è successo in questi anni con una riduzione a un martirologio, giusto e doveroso, ma con lo sguardo tutto rivolto a un passato che stava appunto velocemente passando. In questo inverando i caratteri stessi della Resistenza, l’essere non solo fatto militare ma laboratorio di democrazia, educazione alla politica, responsabilità collettiva dal basso.
Intimamente connessa con l’idea di un futuro diverso. Allora questo 25 aprile dovrebbe essere innanzitutto autocritica e voglia di un nuovo inizio. Acquisizione della convinzione che è necessario mutare linguaggio, ritualità, capacità di essere presenti nella quotidianità e nella fatica del vivere di tanti italiani.
Insomma comprendere che è necessario fare un punto e a capo. Per ridare all’antifascismo quella dignità di movimento che produce giustizia sociale. Ritornare a fare una scelta di campo, anche individuale, di certo molto meno impegnativa e pericolosa di quella che mosse tanti giovani nell’autunno del 1943. E in questo ci sarebbe davvero nuova forza al ricordo. Non sarà facile cambiare, rompere con una tradizione ossificata, perdere le retoriche.
Ma vale la pena di tentare perché oggi abbiamo più bisogno e non meno bisogno di antifascismo. Ma di un antifascismo capace di parlare nei nostri tempi, di non essere pura testimonianza, formalismo.
Di essere, all’opposto, innanzitutto impegno civile. Buon 25 aprile.