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Le case dei mafiosi un bivio per la città

CARTA BIANCA

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È stata la più consistente confisca di immobili del Nord Italia. Conseguenza di un’azione investigativa condotta nel 2009 dai carabinieri e denominata, emblematicamente, “Terra di nessuno”. Centoquindici appartamenti, locali c mmerciali e bassi di proprietà della famiglia siciliana dei Canfarotta.
Frutto di attività criminose o utilizzati per commettere reati e illeciti.
Di questi settantuno sono situati nel Centro Storico e in particolare nella zona della Maddalena e dei Macelli.
E sempre alla Maddalena e dintorni sono stati sottoposti a sequestro, tra l’altro, i beni della famiglia calabrese dei Zappone ritenuta legata alla n’drangheta e di Rosario Caci, affiliato a “cosa nostra”. Nell’insieme una consistente proprietà immobiliare che gravava come una vera e propria metastasi sul territorio. Basta contare il numero delle saracinesche chiuse e dipinte dai tanti ragazzi coinvolti dal “Cantiere della legalità responsabile” nel progetto “Maddacinesche”, per avere visivamente le dimensioni della criminalità organizzata e non che strangola parte dei nostri vicoli. Per altro immediatamente adiacenti a quelli percorsi da milioni di turisti. Quei sequestri disegnano una presenza diffusa, persistente, che si materializza nello sfruttamento della prostituzione, negli affitti in nero a immigrati, nell’usura, nella ricettazione. Nell’intreccio con lo spaccio della droga. Producendo non solo degrado civile, ma paura e violenza. Anche questo è il centro storico di Genova. Quello troppo spesso invisibile. E forse bisognerebbe dare più forza a quei cittadini e commercianti che si impegnano a denunciare le infiltrazioni mafiose che misurano metro per metro i processi di bonifica, o all’opposto, di crescita dell’invivibilità. Non di rado sono allarmi che trovano poco ascolto. Perché è difficile e faticoso misurarsi con questi processi di occupazione del territorio per lo più antichi nel tempo. Impongono investigazioni, azioni di polizia ma anche una strategia pubblica di risanamento, di rigenerazione urbana e civile. Anche coraggio. Un grande tema per tutta la città. Per altro proprio la normativa Rognoni-La Torre collegava i beni confiscati a un risarcimento per la comunità, a un riuso a favore della coesione sociale, a momenti di progettualità condivisa e partecipata. Nel 2014 la confisca diventa definitiva pur con non pochi problemi: si parla di affitti che continuano a essere riscossi dai Canfarotta, del proseguimento delle attività di prostituzione, di rottura delle nuove serrature. Insomma, in una difficoltà di controllo dell’Agenzia per i Beni confiscati a cui tutto il patrimonio è conferito, si manifestano le forme di tradizionale arroganza e di indifferenza per la legge. Perché comunque tutta la procedura è complicata, coinvolge soggetti istituzionali diversi, implica tempi burocratici lunghi.
In molti casi poi ci troviamo davanti a locali inabitabili, insalubri, fortemente deteriorati e decrepiti. Insomma il passaggio tra confisca e riutilizzo è tutt’altro che agevole. Presuppone una forte volontà politica e la capacità di allargare la collaborazione a una pluralità di realtà economiche, culturali, di cittadinanza. Insomma alla messa in campo di responsabilità diffuse. Sempre nel 2014 il comune commissiona un piano di fattibilità per l’utilizzo di quarantasei immobili nella città antica, nel 2016 la prefettura costituisce per la prima volta un nucleo di supporto organizzativo, nel 2017 ancora il Comune acquisisce, con voto unanime del consiglio, un primo lotto di undici immobili, mediamente in buono stato da assegnare poi con bando a funzioni di animazione territoriale. Un atto vissuto come un risultato importante da “Libera”, dal “Cantiere per la legalità responsabile”, dal CIV, dall’associazionismo dei cittadini della Maddalena. Viene anche ottenuto un milione di euro nell’ambito del Patto per Genova per un primo pacchetto di interventi. Di fatto da allora poco si è mosso. Eppure la cosa è davvero importante e i progetti possibili sono tanti: da un albergo diffuso, a residenze studentesche, a spazi per la creatività giovanile, a residenze per artisti stranieri. E non è difficile immaginare quanto l’inserimento di queste attività contribuirebbe a una bonifica, o meglio ancora, a una nuova vita per un sestiere così ancora profondamente penalizzato. Ma soprattutto trasformare i presidi dell’illegalità in presidi della legalità avrebbe una straordinaria valenza civile a fronte di una attività della criminalità organizzata capace di reagire ai colpi subiti e del tutto intenzionata a non mollare la presa. E forse la prima cosa da fare per non lasciare soli quegli abitanti e commercianti che si oppongono al degrado è di riaccendere un faro su questo processo. Farne, appunto, una questione cittadina. Perché isolamento e stanchezza pesano. Perché il fatto che tutto rischi di ridursi a propaganda e retorica anche. Eppure tanti e possibili risultati sono a portata di mano. C’è una continuità amministrativa da proseguire, un sostanziale consenso di tutte le parti politiche. Perdere questa opportunità sarebbe invece una sconfitta cocente. Che davvero, questa sì, non riguarda un quartiere ma un’idea di città fondata sulla legalità e la sicurezza reale. Non di facciata.