Genova

Il 30 giugno non sia solo un rito

CARTA BIANCA

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Genova è il primo segno che la Resistenza può ricominciare non come gloria passata o celebrazione ma come lotta dell’oggi. Lasciamo il passato al passato. Uomini nuovi, giovani nuovi ripensano nuovi pensieri, che sono i nostri. E la fiducia rinasce”: così Carlo Levi, l’autore di “Cristo si è fermato ad Eboli” commenta i fatti del 30 giugno 1960. E ne individua uno degli elementi centrali: il ritorno sulla scena pubblica dei giovani che erano fino ad allora apparsi lontani dalla politica e dal conflitto sociale. Immersi nel mito americano e per lo più incomprensibili ai padri che avevano consegnato all’Italia la democrazia repubblicana e combattuto per tutti gli anni cinquanta per la difesa della dignità del lavoro in fabbrica. Le “magliette a righe e i blue jeans” aprono, con i loro coetanei in Giappone, in Francia e negli Stati Uniti, una stagione inedita di protagonismo giovanile che porterà alla grande ribellione generazionale del Sessantotto. Ecco forse ricordare il 30 giugno 1960 significa innanzitutto interrogarsi sulla condizione giovanile oggi in Italia, sulle diseguaglianze, l’assenza di futuro, la precarietà lavorativa che segna i più giovani nel nostro paese. E contemporaneamente riflettere sulla loro sostanziale sfiducia dell’azione collettiva, l’individualismo conformista e l’indifferenza sociale che sembra caratterizzarli. Allora la Resistenza, pur sottoposta a uno dei tanti processi di delegittimazione, apparve invece alle nuove generazioni come un riferimento storico riattualizzabile, la via per riscoprire e rinnovare la politica, per ritrovare un impegno civile. Una Resistenza che però veniva sfrondata dalla retorica e consegnata a una nuova e più vivace chiave di lettura: quella della giustizia sociale e di una più avanzata democratizzazione dell’Italia. Utile ripensarci e ricordarlo in un momento in cui l’antifascismo appare a una larga parte di italiani un ferrovecchio, un’astratta liturgia incapace di affrontare le contraddizioni del presente e la crisi formale e sostanziale della nostra democrazia. Perché l’estate di cinquantotto anni fa ci dice che l’antifascismo si trasmette e vive solo se è in grado di trovare linguaggi e parole nuove, se è capace di corrispondere ai bisogni, se è la leva per riaffermare diritti e uguaglianza reale. L’alternativa è il ridursi a una testimonianza doverosa ma marginale. Incapace di ricomporre le lacerazioni sempre più pericolose che attraversano dal basso la società. Ma per evitare questo rischio, cui per altro siamo assai vicini, non basta semplicemente costruire occasioni di celebrazione “identitaria”. E’ necessario mettere in campo idee nuove di difesa sociale e di partecipazione collettiva. Riuscire appunto “lasciare il passato al passato” come invitava a fare Carlo Levi. Il governo Tambroni rappresentò il tentativo di imprimere una involuzione reazionaria alla democrazia italiana, di coinvolgere formalmente il neofascismo nei nuovi equilibri istituzionali. Oggi noi abbiamo, con grandi indici di consenso, culture neoautoritarie e sovraniste alla guida del paese. Lo sdoganamento applaudito dell’imbarbarimento linguistico, della rabbia che si alimenta di paure. Un contesto davvero sideralmente distante. Ed è difficile ignorare o rimuovere quel consenso. Non farci i conti e continuare a immaginarsi un’Italia diversa da quella che è.
E allora l’antifascismo non può non coincidere con la rivendicazione del pieno rispetto della legalità democratica, di quel patriottismo costituzionale che è proprio altra cosa dal neonazionalismo in cui sembriamo precipitati. O non essere in primo luogo opposizione a un razzismo che sembra crescere in termini accelerati, modificare la stessa antropologia degli italiani e che ha le sue radici nel non aver costruito protezione ai soggetti più fragili e più colpiti dalla crisi. Considerazioni che valgono anche per Genova che con quel 30 giugno annuncia, dopo lo sciopero del dicembre del 1900 e il 25 aprile 1945, per la terza volta in un secolo un cambio profondo degli orizzonti politici della nazione. Sapendo che non siamo più la città delle grandi fabbriche, dei camalli, dei quartieri operai socialmente omogenei. Che l’antifascismo non è più un filo che passa anche attraverso le classi, memoria innanzitutto famigliare e della comunità. E che non è sufficiente richiamarsi a quell’età o illudersi che nelle tante periferie svuotate di socialità e servizi permanga per quanto annebbiato un sentimento civile comune.
Non è così. Anche di questo bisogna prendere atto. Ricordare il 30 giugno 1960 ha senso se diventa l’avvio di un percorso nuovo. Se rimanda al lavoro sempre più difficile da trovare e con sempre minori diritti, se al dovere dell’accoglienza sa rivendicare anche quello all’integrazione, se assume la lotta alle diseguaglianze, alle povertà, all’analfabetismo di ritorno come difesa dell’idea di cittadinanza propria della Costituzione. Insomma se si guarda avanti e non solo indietro. Se è un momento di nuovo inizio. Non una retorica conferma di esistenza politica. Solo cosi, per ritornare a Carlo Levi, può appunto “rinascere la fiducia”. Cosa di cui abbiamo, a sinistra, grande bisogno.