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Giorgio Tamburlini «I temi di quegli anni nella mia carriera»

Il pediatra: «All’Ictp con Margherita Hack contestai due fisici che contribuirono alla bomba atomica»

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TRIESTE «Fu un fenomeno dalle molteplici espressioni, solo in parte collegate e coerenti tra loro, se non nella richiesta di cambiamenti radicali e nel coinvolgimento di grandi masse, soprattutto studenti, ma anche operai e movimenti di liberazione nei paesi del Terzo mondo, come la rivoluzione cubana», spiega Giorgio Tamburlini, medico pediatra triestino ed ex direttore scientifico del Burlo, presidente del “Centro per la salute del bambino”, Onlus che promuove in Italia i programmi “Nati per leggere” (per questo Tamburlini ha vinto nel 2016 il Premio Nonino) e “Nati per la musica”. Il suo ’68 ebbe inizio negli Stati Uniti, nel New England, dove si trovava a frequentare l’ultimo anno delle superiori come borsista di un programma di scambio. Quell’anno fu fondamentale per la sua formazione sociale e politica.



Che aria si respirava negli States in quel fatidico anno?

«Un’aria di richiesta e ricerca di rinnovamento. I contatti con alcuni studenti universitari mi fecero scoprire il movimento studentesco nelle università delle due coste, da New York a San Francisco. Un movimento portatore di contenuti diversi: la protesta antiautoritaria e quella contro la guerra del Vietnam, ma anche l’afflato New Age, con la ricerca di una spiritualità diversa espressa dal fenomeno hippy. A segnarmi di più furono due eventi: l’uccisione di Martin Luther King in aprile e quella di Robert Kennedy in giugno. Sentii molto il peso di questi due assassinii. Avevo un caro amico che mi aveva inserito nella comunità afroamericana, facendomi capire il peso delle disparità razziali. Vissi entrambi quegli eventi come una violenta sopraffazione della giustizia e della democrazia».



Cosa accadde quando tornò in Italia?

«Quando tornai in Italia, nell’estate del ’68, ero una persona diversa, con un pensiero politico sviluppato, pacifista, anti autoritario, internazionalista, ma privo di un’immediata connotazione partitica. Ero al mio ultimo anno da liceale e m’incontravo con un gruppo di altri studenti influenzati da quanto era successo in diverse sedi, soprattutto all’Università di Trento. Iniziammo a chiedere una scuola che fosse più aperta ai problemi sociali, con un metodo d’insegnamento più dialettico, che rendesse necessario uno studio meno accademico. Erano richieste che ora paiono del tutto normali, ma allora erano rivoluzionarie rispetto alla realtà: la scuola italiana era estremamente ingessata».

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Come ricorda il movimento studentesco triestino?

«A Trieste c’era un movimento universitario in cui confluivano varie anime. Univa italiani e sloveni e ne facevano parte non solo i rappresentanti di gruppi allora definiti come extraparlamentari ma anche chi non aderiva a nessun gruppo politico, come giovani della federazione giovanile comunista, socialista, ma anche di quella che allora si definiva come “sinistra Dc”, e tanti altri: un arco molto ampio che dialogava, portando avanti le stesse istanze antiautoritarie e di rinnovamento dell’Università, della sua apertura al mondo e alla società».

E nella sua facoltà?

«Mi ero iscritto a Medicina, dove demmo vita a un Comitato che proponeva gruppi di studio e che produceva un bollettino in cui si trattava dei problemi della salute in Italia e si discuteva di come la facoltà riuscisse o no a rappresentarli. Eravamo insoddisfatti rispetto a come ci veniva proposto l’insegnamento. Ci battemmo perché venissero istituiti gli insegnamenti di Medicina del lavoro e Psicologia: era per noi impensabile che un medico si formasse senza una visione dell’uomo che andasse anche al di là di quella puramente biomedica. Oltre a questi temi c’erano le istanze per il diritto allo studio e in generale il tema della giustizia sociale. Infine c’era il filone internazionalista, le proteste contro l’intervento americano in Vietnam, la solidarietà con chi si batteva contro la dittatura dei colonnelli in Grecia o il salazarismo in Portogallo».

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Come si pose di fronte a rivendicazioni quali il 18 politico?

«Non fui mai a favore di radicalismi quali il 18 politico o l’esame collettivo. Non mi pare che siano mai rientrati nelle nostre richieste. Ero a disagio anche nei confronti di alcuni slogan di quei tempi, violenti quanto improbabili. Molte delle sensibilità acquisite in quegli anni mi sono rimaste: tuttora sono attivo in programmi di cooperazione internazionale, che hanno costituito una parte non piccola del mio percorso professionale, sia di lavoro sul campo che di ricerca applicata. E, con la Onlus che ho contribuito a fondare quasi 20 anni fa sono impegnato in programmi di salute, educativi e sociali per bambini e genitori, soprattutto finalizzati allo sviluppo cognitivo e socio-relazionale. In fondo, anche l’idea di occuparsi della mente e non solo del fisico appartiene al bagaglio del ’68, rinforzato ed espanso proprio a Trieste dalla esperienza basagliana, a cui fui molto vicino».

Quale giudizio storico darebbe di quel periodo? Fu tutto oro?

«Certamente no. A quel movimento è mancata la possibilità di costruire alternative realistiche: serviva, direi con il senno di qualche anno dopo, una visione politica riformista, per cambiare le cose e non “abbatterle” (come si diceva allora), anche perché i tentativi di abbattimento – se a volte necessari contro regimi dispotici - sono sempre sanguinosi. Lo dimostrarono tragicamente le espressioni patologiche che quel movimento produsse: il fondatore delle Brigate Rosse era tra i leader della protesta trentina».

Le componenti erano diverse...

«Il ’68 fu un movimento complesso. Oltre alle istanze collettive, si fece anche portatore, a volte estremo, del valore più borghese di tutti: la libertà, esaltata nei rapporti intrafamiliari, tra genitori e figli e tra donna e uomo. Quanto al capitalismo, oggetto di una rinnovata dimensione critica, che ne vedeva i disastri sull’uomo, qualcuno ha sostenuto che ne uscì rafforzato. Ma questo resta vero per qualsiasi altro movimento, compreso quello di ispirazione marxista. Il sistema attuale, basato sul capitale finanziario sovranazionale, può essere sconfitto solo da se stesso, in quanto produttore di effetti palesemente controproducenti per la grande maggioranza».

E se non ci fosse stato il movimento del ’68?

«Sono convinto che saremmo un po’ peggiori di quanto siamo. Perché, ad esempio, ha prodotto migliaia e migliaia di professionisti che nel loro lavoro hanno cercato di portare una ventata di rinnovamento. Se non ci fosse stato quel movimento, credo che avremmo un sistema sanitario, un sistema educativo e una legislazione sui diritti più arretrati di quelli attuali».

Rinnega qualche suo atteggiamento di quegli anni?

«C’era la tendenza a generalizzare, a non distinguere, ad analisi un po’ affrettate. Ad esempio, esagerai forse, ma ero giovanissimo, quando nei primi anni ‘70 insieme a Margherita Hack, intervenni all’Ictp, dove si stava svolgendo un convegno al quale erano intervenuti due fisici americani di origine tedesca che avevano contribuito alla costruzione della bomba atomica. Nel nostro intervento condannammo l’uso della conoscenza a fini bellici. Probabilmente non era il caso di prendersela con gli scienziati, o almeno non con quelli, ma con l’uso che altri fanno della conoscenza. È un tema ancora molto attuale».

(2-Continua)

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