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Claudia Ponti: «Dalla separazione la lunga strada per essere libera»

Claudia Ponti faceva parte dell’Unione donne italiane lasciò il marito a 26 anni con una figlia piccola

4 minuti di lettura

TRIESTE Il movimento del’68 a Trieste non fu soltanto faccenda di studenti e operai. Uno degli esiti più “rivoluzionari” di quella straordinaria stagione politica fu la nascita e la crescita del femminismo organizzato, che riuscì a riunire nella lotta intorno a rivendicazioni comuni donne di tutte le età e appartenenze sociali.



Quando scoppiò la contestazione il femminismo cominciò quel lungo processo di autocoscienza che lo portò ad affermarsi come movimento autonomo durante tutto il decennio successivo. Attraverso le lotte al femminile le donne si concentrarono sulla propria identità, svincolandola dai doveri imposti dalla società patriarcale: dover essere figlia, poi moglie, poi madre in un percorso già segnato dalla società, con un destino già previsto. Già il fatto di incontrarsi da sole, in gruppi tutti al femminile, rappresentò per molte una prima battaglia: una casalinga che lasciasse il proprio regno incustodito non era vista certo di buon occhio.

Nel nome dell’emancipazione e dell’autodeterminazione le donne iniziarono a rivendicare il proprio posto nel mondo. Si lottò per il divorzio, per le modifiche alla legge sul diritto di famiglia, per ottenere il sacrosanto potere di decidere per il proprio corpo, con il diritto a una sessualità svincolata dalla riproduzione che fu garantito poi dalla diffusione della pillola anticoncezionale e dalla legge sull’aborto.

Per Claudia Ponti la lotta fu in primo luogo personale, per ottenere il diritto di scindere un legame che la costringeva tra le mura di casa, privandola perfino della possibilità di lavorare. Vale la pena ricordare questo significativo pezzo di storia del nostro Paese: se oggi le donne sono più forti e più libere, pur continuando a pagare profumatamente il prezzo di questa libertà, molto si deve alle lotte di quegli anni.



Come iniziò il suo sessantotto a Trieste?

«Avevo 26 anni e una figlia piccola ed ero all’inizio di una burrascosa separazione. Non ero più così ragazza come quando m’ero sposata, a 21 anni. Allora avevo appena raggiunta la maggiore età: ci sposammo in Comune e il giorno dopo il matrimonio andai a votare per la prima volta. Nel’68 invece frequentavo i movimenti femministi e fu l’anno in cui, sulla scia del maggio francese, aderii al Pci».

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Come si caratterizzò il movimento femminista a Trieste?

«A Trieste c’erano due tipi di femminismo: c’era il gruppo di via Imbriani, che propugnava un femminismo aggressivo, e il nostro gruppo, parte dell’Unione donne italiane (Udi), storica associazione che si batteva per l’emancipazione della donna. Lottavamo per liberarci dalle regole che ci condizionavano l’intera vita: ci era stato imposto di essere casa e chiesa, di rinunciare al lavoro per essere mogli e madri. Rivendicavamo una nostra individualità e la possibilità di esprimere le nostre potenzialità anche al di fuori della famiglia. Non era la famiglia come struttura a starci stretta, ma le leggi che la regolavano, che ci relegavano per tradizione in una posizione subalterna, in cui neppure il nostro corpo ci apparteneva. Non potevamo scegliere neanche se volevamo essere madri. E poi c’era da lottare per ottenere più diritti e più potere in campo politico, lavorativo e studentesco: serviva una rappresentanza femminile negli organi decisionali, dal consiglio d’istituto al governo, asili nido per le mamme lavoratrici e meno discriminazione salariale. Ciò che fu straordinario del’68 fu che per la prima volta le donne ebbero e si presero la possibilità d’incontrarsi, di confrontarsi e di riflettere sulla propria condizione. Nei movimenti femministi c’erano tutte le generazioni: le più accese erano le più giovani, ma c’erano anche donne anziane che avevano fatto la Resistenza. Erano le più riverite, perché con le loro azioni avevano giocato un ruolo fondamentale nel movimento di liberazione».

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Cosa significava separarsi a quei tempi?

«All’epoca erano pochissime le ragazze nubili e iniziavano, anche se molto timidamente, i primi rapporti di convivenza. Il divorzio non esisteva, le donne separate erano delle mosche bianche e venivano considerate delle fallite. Come capofamiglia mio marito poteva decidere di me e di mia figlia: quando mi sono separata per avere il nome della bambina sul passaporto serviva la firma di mio marito. Se la donna non lavorava non aveva una sua tessera sanitaria: il suo nome era su quella del marito e ciò valeva anche in caso di separazione, perciò io ero condizionata ad avere l’assistenza sanitaria tramite il mio ex marito. Fu grazie alle lotte femminili se le cose negli anni settanta cambiarono, con la riforma del diritto di famiglia e quella sulla sanità».

Perché decise di affrontare lo stesso il percorso di separazione?

«Perché stavo vivendo una vita che non mi apparteneva. Avevo un marito molto geloso e possessivo, che non mi consentiva di lavorare. Avevo iniziato a lavorare in una pulitura, a San Luigi, aiutavo i miei genitori a portare avanti l’attività. Ma mio marito arrivava mentre stavo lavorando e mi faceva delle scenate terribili: mi chiesero di rimanere a casa per non far scappare i clienti. La prima persona a cui confessai che avrei lasciato mio marito fu mia suocera, con cui avevo un ottimo rapporto. Mi diede una mano con mia figlia e anche se non nascose il suo dispiacere, mi disse che mi capiva. Con mia madre invece la faccenda fu più difficile, perché dopo la separazione non volli tornare a casa con i miei genitori.

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Non avevo un lavoro, perciò per un periodo fui ospite di alcune amiche, poi mia nonna, che era una persona straordinaria, decise di trasferirsi da una sua conoscente per lasciarmi casa sua: voleva aiutarmi a recuperare un minimo di stabilità in una situazione per nulla facile. Mio marito andò fuori di testa: mi seguiva dappertutto, era convinto che l’avessi lasciato per un altro uomo e voleva scoprire chi fosse. Quando andai con lui in tribunale per il tentativo di conciliazione obbligatorio il giudice si dimostrò indignato perché non volevo raccogliere la disponibilità del “maschio” a riprendermi con lui. Per divorziare ho dovuto aspettare la legge del 1970».

Cosa ricorda del clima di quegli anni?

«In quegli anni si era risvegliata la voglia di politica: c’era molta attenzione sia nei confronti dei partiti tradizionali, dalla destra al centro alla sinistra, sia in ambito extraparlamentare. Le manifestazioni si susseguivano. Ma il Partito Comunista arrivò in ritardo rispetto al movimento studentesco: nel’68 dall’esterno ancora non si capiva bene cosa stava succedendo all’Università. L’adesione completa, con supporto tecnico ed economico al movimento, arrivò un po’dopo. Nelle fabbriche e in porto invece il Pci, come il Psi e al di là dei sindacati, c’era ed era forte: la mia prima tessera di partito me l’ha fatta un amico portuale, che mi ha iscritto alla sezione del porto».

E la cultura?

«Era grande anche la voglia di cultura: nel’68 in via Capitolina, sede storica del Pci, avevamo dato vita al Circolo Barbaro, il cui responsabile era un operaio del cantiere San Marco, Tullio Morvutti, che proponeva cinema d’essai e teatro. Dario Fo e Franca Rame ci fecero visita più volte: ci appassionammo a “Morte accidentale di un anarchico”. Avevamo anche un gruppo musicale: con chitarra, fisarmonica e voce giravamo per le piazze, dove allestivamo un piccolo palco per suonare. Il nostro repertorio ruotava attorno alle canzoni rivoluzionarie del maggio francese. Adoravamo canzoni come “Mourir d’aimer”, di Charles Aznavour, che ricorda la vicenda di Gabrielle Ruzzier, giovane insegnante condannata al carcere per aver amato, ricambiata, un allievo minorenne e morta suicida».

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