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Fascismo, macchina imperfetta

Il docente Guido Melis analizza le molteplici dinamiche del partito e del regime

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In questo periodo in cui i fantasmi del fascismo tornano ad apparire sulla scena politica italiana, viene da chiedersi che cosa sia stato veramente quel fenomeno politico italiano, e quanto conosciamo oggi di esso al di là di stereotipi e frasi fatte. Soccorre la poderosa opera del docente della Sapienza di Roma, Guido Melis “La macchina imperfetta – Immagine e realtà dello Stato fascista” (il Mulino, pagg. 620) in cui l’autore, come uno scienziato, esamina al microscopio la “vita più intima del suo oggetto di studio”. Il risultato è “un inventario di problemi” perché il fascismo era “monoliticamente pluralista”, un ossimoro per spiegare le molteplici dinamiche che lo hanno interessato dall’origine alla fine.

Il volume è frutto di lunghe e accurate ricerche ed è talmente denso di date, dati, episodi, personaggi, situazioni che possiamo soltanto far cenno ad alcune voci dell’inventario. In primo luogo emerge che la rivoluzione fascista è rimasta incompiuta negli aspetti peraltro più propagandati, quali il corporativismo il quale lasciò il posto allo Stato imprenditore, che sarebbe durato a lungo anche dopo la caduta del fascismo. Poi la fusione tra Pnf (Partito nazionale fascista) e Stato non si sarebbe realizzata per le resistenze dell’amministrazione. Il “burocrate in camicia nera” non viene alla luce ma il fascismo lascia un’impronta indelebile, fatta di obbiedienza, acriticità, conformismo fino al servilismo.

Certo il regime, la cui ideologia è incerta, crea, via via, le sue istituzioni: Gran Consiglio, Direttorio del Pnf e trasforma il Parlamento, sostituendo la Camera dei deputati con la Camerca dei fasci e delle corporazioni, ma quest’ultima la realizza appena nel ’39. Anche sotto l’aspetto giuridico nonostante la mole di leggi, 10 mila varate nel ventennio, rimangono i residui della vecchia cultura liberale. Addirittura la censura presenta aspetti curiosi, un esempio è Leopoldo Zurlo, il censore dei testi teatrali che “guida” gli autori, concorda benevolmente i contenuti. Il rapporto del fascismo con gli intellettuali è ambiguo, da entrambe le parti.

Poi ci sono le periferie e i localismi: la lotta contro i ras locali è continua e frena la centralizzazione e la nazionalizzazione degli italiani. Mussolini, che tutto vuol accentrare, tutto vuol sapere e ha un’incredibile capacità di lavoro, polarizza la Nazione su di sé, ma fino a un certo punto, perché comunque deve mediare anche all’interno del Pnf e perché c’è il re. I due vanno d’accordo sin dall’inizio e raggiungono il massimo della sintonia durante la guerra d’Etiopia, però rimane il nodo se Vittorio Emanuele III sia superiore al Duce, sia pure come retaggio storico, o Mussolini possa pretendere la “parità”. Proprio su questo avverrà l’unica crisi della coppia: quando saranno entrambi nominati dal Senato “marescialli d’Italia”. Comunque si riappacificano e pochi mesi dopo il re firmerà le infami leggi razziali con qualche flebile lamento. Peccato che Melis, parlando del razzismo fascista, trascuri i provvedimenti presi ai dannni delle popolazioni slave sul confine orientale forieri di immani tragedie.

Ma il regime come fa a penetrare nel tessuto sociale del Paese? Non solo con il controllo poliziesco, ma soprattutto con la propaganda (i giornalisti sono tra le categorie meglio pagate), la pletora di enti parastatali con fini sociali e le opere pubbliche che creano il “grande consenso”, secondo la famosa definizione di Renzo De Felice, citatissimo da Melis. Ma è veramente consenso? Secondo Melis, che confessa di non avere tutti i dati per affermarlo, è più apatia, è farsi i fatti propri. Poi a dissolvere tutto verrà la guerra che Mussolini vuole come igiene del mondo, per attuare la “terza ondata” che lo libererà dei borghesi, dei capitalisti e del re. Ma sappiamo com’è andata a finire.

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