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Pif: «È liberatorio prendere in giro la mafia»

L’attore sarà a Link domenica e presenterà la nuova serie sui Giammarresi in onda su Raiuno dal 26 aprile

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«Stiamo facendo pura e essenziale antimafia: più ragazzi guarderanno questa serie, più saranno una speranza per il futuro». Così Pif, al secolo Pierfrancesco Diliberto, parla in anteprima della seconda stagione di “La mafia uccide solo d’estate”, in onda dal 26 aprile su Raiuno. E Pif svelerà nuovi dettagli a Trieste domenica, alle 11.30 in Piazza Unità, ospite di Link 2018, il festival del Premio Luchetta, insieme all’ex iena Paul Baccaglini e Laura Piazzi, voce di Radio2 Rai. “La mafia uccide solo d’estate”, scritto e ideato da Pif, è il racconto della famiglia Giammarresi a Palermo tra gli anni ’70 e ’80, all’epoca della cruenta guerra di mafia tra i Corleonesi di Totò Riina e i palermitani di Stefano Bontate. I Giammarresi, papà Lorenzo (Claudio Gioè), mamma Pia (Anna Foglietta), e i figli Angela (Angela Curri) e il piccolo protagonista Salvatore (Edoardo Buscetta), non sono affatto mafiosi, anzi: eppure inciampano nella criminalità, nella corruzione, nella lusinga di una raccomandazione. «Ognuno di noi italiani si rivede nei Giammarresi, che contestano e combattono la mafia, ma cadono nelle varie contraddizioni che questo paese gentilmente ci offre», dice Pif, che sta anche per interpretare il suo primo film solo da attore, “Momenti di trascurabile felicità” diretto da Daniele Luchetti. Se nella prima serie assistevamo all’assassinio di Placido Rizzotto e Boris Giuliano, la seconda stagione passerà per l’assassinio di Piersanti Mattarella e arriverà fino al 1984, quando Tommaso Buscetta inizia a parlare con la giustizia.

Quali eventi collettivi si intrecceranno con la vita della famiglia Giammarresi?

«Ho voluto raccontare - risponde Pif - quelli che, purtroppo, non sono stati eventi collettivi: gli omicidi definiti “non eccellenti”, come quello di Carmelo Iannì, albergatore che accettò di infiltrare dei poliziotti nei suoi hotel permettendo la cattura del boss Gerlando Alberti. Per questo Iannì fu ucciso dalla mafia, ma per settimane i giornali non riconobbero il suo gesto eroico. La cosa più grave che possiamo fare è dimenticare queste persone. Quando ho a che fare con gente che denuncia il proprio estorsore, la loro vera paura non è solo avere a che fare con la mafia, ma che il gesto non venga riconosciuto dalla comunità».

A differenza di molte serie degli ultimi anni, lei sceglie di raccontare la criminalità in tono dissacrante: perché?

«È liberatorio prendere in giro la mafia, soprattutto per smitizzarla. Anche se sono cresciuto in un ambiente non mafioso, per tutti “l’uomo che costruiva i palazzi” era “un uomo che si faceva rispettare”, non dicevamo “mafioso”. Grazie a una serie come questa, il mito della mafia si sgretola su Raiuno, davanti ai ragazzini di oggi».

Quali sono i ricordi più autobiografici che ha messo nella serie?

«Non rispecchia la vita della mia famiglia, è autobiografica più dal punto di vista generazionale. Questa serie è un po’ un’enorme seduta di psicanalisi, quell’esame di coscienza collettivo che non ci siamo mai fatti: chi più, chi meno, siamo tutti colpevoli. È difficile essere coerenti quando vivi in una società basata sulla corruzione e sull’illegalità».

Come si combatte questo circolo vizioso? Scegliendo di non fuggire, come il piccolo Salvatore, o magari raccontando il mondo con una telecamera, come fa lei?

«In tutti e due i modi. Nella vita ho capito che la verità ha un ruolo fondamentale, bisogna dirsela anche quando è dolorosa o rovina la festa. Questa serie racconta quello che è successo realmente: rivedendolo, c’è da vergognarsi».

Oggi cos’è cambiato nei rapporti con la mafia?

«Adesso non si può non sapere, gli strumenti per capire ci sono: non abbiamo più scuse. L’amara verità è che tutto ciò che in Sicilia è straordinario, nel resto del mondo è normalità. Sto sviluppando il motto “Da Cosa Nostra a Colpa Nostra”: dobbiamo cominciare a pensare a quanto la mafia ci sia per colpa nostra. Il ragionamento vale in tutta l’Italia, ma a noi palermitani tocca essere ancora più onesti».

Cosa fa per Pif un buon giornalista?

«La verità. Se possiamo raccontare quello che è successo è grazie ai giornalisti che presero la strada più difficile raccontando le cose come stavano. Purtroppo oggi giornalisti che fanno lezione su Falcone e Borsellino sono gli stessi che, quand’erano vivi, li sputtanavano quotidianamente».

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