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Quei bravi ragazzi con brutti difetti

Partigiani al confine orientale tra lotta e diffidenze

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Parlare di Resistenza oggi è un impegno non da poco. Sembra innanzitutto un evento lontanissimo nel tempo, nonostante le polemiche che di volta in volta riaffiorano sia sulla stampa sia con la produzione di volumi spesso astiosi e scarsamente documentati. La definizione stessa di Resistenza pare dissolversi nel nulla o restare patrimonio di pochi anziani che ne conservano brandelli di memoria. Molti giovani non sanno. A parer mio, servono a poco anche le celebrazioni di quello che può essere definito uno degli spartiacque più importanti della storia italiana ed europea. La memoria e la storia del percorso resistenziale andrebbero coltivate ostinatamente giorno dopo giorno, senza timore di porsi controcorrente e con grande passione per la ricerca. Un’avventura umana così importante, radice della nostra democrazia, non può essere messa in soffitta tra le anticaglie della Casa Italia.

Quei venti mesi di Resistenza contro nazisti e fascisti accumularono un patrimonio innegabile di valori: idee nuove, manifestazioni di forte solidarietà e di pietas, amore per la patria, per la vita, per la politica intesa come ricerca delle regole della polis. Non ultima, emerse una capacità di ribellione contro la disumanizzazione della guerra totale e delle dittature. Scelte orientate a un futuro diverso e contrario rispetto all’esperienza totalitaria del fascismo e del nazismo. Complessa fu la vicenda resistenziale e certo si trattò di un’avventura umana, spesso scabrosa, contorta, impastata di lacerazioni e contraddizioni.

Il grande Beppe Fenoglio, in uno dei suoi racconti pubblicati alla fine della seconda guerra mondiale (I ventitre giorni della città di Alba), propone una definizione della figura del partigiano che appare tuttora vivida: “(Ci si accorse, nda) che i partigiani erano per lo più bravi ragazzi e che come tali avevano brutti difetti”.

Si potrebbe e si dovrebbe discutere ancora a lungo, ma è indubbio che molte di quelle scelte compiute all’interno di una guerra atroce erano dense di una “moralità”sconosciuta ai regimi totalitari, la “moralità” di quanti stavano elaborando con fatica, da “piccoli maestri” di se stessi, le regole della libertà e della convivenza democratica. In tal senso sono moltissimi gli esempi di un eroismo che non ha bisogno di maiuscole e rifugge da vacue glorificazioni: sono tuttavia tracce che restano a beneficio della nostra contemporaneità.

Difficile la Resistenza al confine orientale, laddove ci si preparava per tempo a una resa dei conti drammatica: i nazionalismi sempre in agguato, le tragiche avventure imperiali del fascismo e le nuove ambizioni di conquista dello Stato jugoslavo, posto sulla scia dei vincitori, condizionarono pesantemente ogni momento della guerra resistenziale. Nemmeno la comune sofferenza sul campo di battaglia e gli accordi più volte ripetuti tra le organizzazioni del partigianato italiano, sloveno e croato, sciolsero i nodi di una reciproca diffidenza. Non tutti i passaggi di questo intricato percorso sono emersi, nonostante il passare degli anni e i numerosi studi pubblicati.

Per queste ragioni, dunque, l’Istituto per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea nel Friuli Venezia Giulia si fa promotore di nuove ricerche sugli anni che vanno dal 1943 al 1945, cercando di mettere in luce anche l’immediato periodo postbellico: i tempi violenti di una pace particolarmente ardua.

Il seminario “Resistenza, guerra civile, collaborazionismo. Come giudicare i tempi della speranza e del dolore?”, che si terrà domani a Trieste in Sala Tessitori (dalle 15 in piazza Oberdan 5), presenta al pubblico una parte dei risultati raggiunti: l’indagine si basa su nuove fonti che hanno dato ai ricercatori la possibilità di scoprire risvolti ignoti di quella fase storica. Ne emergono i tratti di un’indagine sociale e politica che entra nel cuore dell’area giuliana in guerra, tra città e campagna: le battaglie partigiane, le stragi naziste e fasciste, la violenza, le ambiguità, le doppiezze, il collaborazionismo a più livelli e di diverso calibro, gli atti di una solidarietà gratuita e rischiosa, la forza delle donne che hanno in mano il destino di famiglie scompaginate dalla guerra. Al seminario partecipano Vittorio Coco, ricercatore all’Università di Palermo e i ricercatori dell’Irsrec Fvg Anna Maria Vinci, Irene Bolzon, Fabio Verardo, Roberto Spazzali. Modera Luigi Ganapini, dell’Università di Bologna.

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