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Mengele, la fuga di un aguzzino da spettri e Mossad

Lo scrittore francese Olivier Guez presenterà il romanzo il 2 maggio a Trieste al Caffè San Marco

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Solo le onde dell’Oceano Atlantico riuscirono a giustiziarlo e a vendicare, almeno parzialmente, quelle 400mila persone che mandò alla camera a gas ad Auschwitz. Una morte fin troppo banale per un simbolo del Male come Josef Mengele, per un aguzzino nazista capace di torturare e uccidere bambini e persone menomate in nome delle sue depravate ricerche scientifiche. In tanti si vantarono allora di averlo ammazzato, ma l’unico ad averlo fatto sul serio è stato il mare di Berioga. Lo scrittore francese Olivier Guez, che nel suo romanzo racconta la fuga in Sudamerica e la sua vita da “ratto”, sempre alla ricerca di un nascondiglio più sicuro del precedente, lo definisce la mediocità del Male rifacendosi ad Hannah Arendt e al suo libro su Eichmann.

Non c’è invece nulla di mediocre, anzi, nel libro “La scomparsa di Josef Mengele” di Guez (Neri Pozza, pagg 202, 16, 50 euro), vincitore del Premio Renaudot e subito accompagnato da una critica entusiasta, che verrà presentato il 2 maggio alle 18, all’Antico Caffè San Marco di Trieste, dallo stesso Guez. Un progetto ambizioso, quello dell’autore, che ha ammesso di aver preso come modello narrativo un capolavoro della letteratura come “A Sangue freddo” di Truman Capote. E anche per questo ha scelto la forma del romanzo anziché affidarsi a un libro di inchiesta-giornalistica, un abito che gli andava troppo stretto. Il libro va via come un treno grazie al suo stile asciutto, scarno, sempre sostenuto da un ritmo serrato e senza dialoghi, da una narrazione tesa e cruda come se fosse un vero “giallo”. Guez ha spremuto una storia di cui si sapeva già molto, seppure con numerose zone d’ombra, tirandone fuori il meglio. Il romanzo non è frutto di teorie, rielaborazioni e interpretazioni ma di ricerche fatte sul campo. Guez ha rifatto il percorso del medico nazista in fuga. Ha seguito le sue orme in Argentina, Paraguay e Brasile trovando tutti i luoghi dove aveva soggiornato il criminale delle SS. Ne ha avvertito ancora l’odore e ha trasmesso tutte queste sue emozioni al lettore. Letteratura e cinema hanno già battuto questa strada anche con fortuna, ma Guez voleva qualcosa di più e l’ha ottenuto.

Buenos Aires era stata la prima tappa dell’orco nazista in fuga che aveva usato bambini e nani per i suoi esperimenti nel tentativo di creare la razza ariana. Era il 1949 e in quel periodo la capitale argentina era diventata una sorta di spazzatura della storia, dove sotto l’ombrello protettivo di Peron trovavano riparo numerosi criminali nazisti, ustascia croati e anche fascisti. Una fuga che ha rischiato di finire già al suo sbarco: il doganiere non ha avuto sospetti sulla sua falsa identità quando Mengele ha presentato un documento internazionale della Croce Rossa che si era procurato a Termeno nel sudtirolo ed intestato al meccanico Helmut Gregor ma è rimasto interdetto quando ha aperto la seconda valigia dove era stipati tutti i suoi ferri del mestiere: siringhe, campioni di sangue, vetrini di cellule, appunti con schizzi anatomici. Al medico a cui era stato poi chiesto di ispezionare tutti quegli strumenti, l’angelo della morte aveva raccontato di essere un biologo dilettante. Forse non l’hanno bevuta alla dogana ma avevano fretta di andare a pranzo.

Del resto per riuscire a scappare e a nascondersi per 30 anni bisogna essere abili e astuti ma anche molto fortunati e in alcune situazioni il carnefice delle SS lo è stato. Il suo forzato esilio, malgrado una famiglia ricca che lo proteggeva e foraggiava di continuo, non è stato comunque rose e fuori. La tranquillità a Buenos Aires è durata finché è rimasto in sella Peron. L’Argentina si era rivelata ospitale con i criminali nazisti, erano sorti dei veri salotti in cui gli ex SS si incontravano per fare nuovi progetti e gozzovigliare, era la nazi-society. Tra questi c’era anche Adolf Eichmann, uno dei principali carnefici di Hitler che aveva organizzato le deportazioni nei campi di concentramento. Sfuggito al processo di Norimberga, fu catturato dal Mossad e giustiziato nel 1962 in Israele per genocidio. Tra i due nazisti incontratisi a Buenos Aires, però, non c’era un grande feeling, si sopportavano a malapena. Con la caduta di Peron saltarono presto tutte le coperture, i criminali tedeschi delle SS non si sentivano più sicuri in Argentina. Mengele si rifugiò in Paraguay, altro Paese che aveva teso una mano ai nazisti in fuga, potevano contare sul sostegno del presidente e dittatore Alfredo Stroessner. L’angelo della morte riuscì a ottenere anche la cittadinanza paraguaiana, ma ormai il cerchio si stava stringendo attorno ai carnefici di Hitler. Era cominciata la caccia grossa. Anche la Germania di Adenauer stava cambiando pelle e voleva liquidare il passato, mentre il Mossad si stava avvicinando sempre più a Mengele facendo vane pressioni su Stroessner.

Inizia così la parte più buia e difficile della fuga del medico delle SS, diventato con il tempo sempre più cupo e triste, rabbioso, ossessionato com’era dalla paura di poter essere catturato da un momento all’altro. Una vita da topo, da ratto. Vedeva nemici e cacciatori dappertutto. Ma soprattutto non gli andava giù che molti ufficiali nazisti fossero riusciti a rientrare nella buona società tedesca lasciandolo fuori della porta. L’ultima tappa il suo trasferimento in una fazenda in Brasile sotto la falsa identità di Wolfgang Gerhard dalle parti di San Paolo, protetto (a pagamento) da una stramba coppia di ungheresi. Il Mossad arrivò fino alla fattoria ma per due volte fu costretto a mollare quella pista. Fu quasi dimenticato a causa della guerra dei Sei giorni. Nessuno lo cercava più ma lui non lo sapeva. Mengele dirigeva la fattoria, cercava di far valere la sua autorità ma era un uomo provato e sempre più solo, gli amici si stavano diradando e con loro anche le residue coperture. Gli era rimasto devoto solo un sottufficiale del Terzo Reich, Bossert, che viveva da quelle parti con la famiglia. Mengele pagò con la solitudine e la disperazione per i suoi misfatti. Il carcere si era insinuato nella sua mente, viveva dentro sbarre invisibili.

Era scomodo ormai per la sua stessa famiglia tutta presa dagli affari in Germania. Suo figlio Rolf, stimato avvocato, si vergognava, di portare quel cognome. Il medico riuscì a convincerlo a venire in Brasile. Un incontro devastante, il figlio gli chiese conto di tutte quelle atrocità e lasciò presto il Brasile schifato e non lo perdonò mai.

Forse la condanna più pesante per un uomo al tramonto, ridotto a poco più di un rottame. Un rottame che le onde dell’oceano si portarono via durante una gita al mare con l’amico supersiste Bossert. Forse una morte cercata. Un sollievo.

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