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La criminalità si può battere se ai legami perversi di famiglia si sostituiscono i valori umani

Legami di famiglia. E vincoli troppo stretti, intollerabili. Quando si tratta d’una famiglia criminale, dei rapporti perversi tra genitori e figli in una cosca della ‘ndrangheta. “Rinnega tuo padre”,...

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Legami di famiglia. E vincoli troppo stretti, intollerabili. Quando si tratta d’una famiglia criminale, dei rapporti perversi tra genitori e figli in una cosca della ‘ndrangheta. “Rinnega tuo padre”, scrive Giovanni Tizian, giornalista sensibile e bene informato, per Laterza (pagg. 224, euro 16,00). Si possono rompere, le dottrine dell’arroganza, della violenza e del malinteso onore. E sostituire al padre assassino il valore della libertà e il senso umano della Legge. La Calabria ne offre positivi esempi. Una lezione civile generale. Ci sono storie di genitori e figli di tutt’altra natura. Come quella raccontata da Jole Garuti in “In nome del figlio” (Melampo, euro 16,00) con un’intensa prefazione di don Luigi Ciotti. È la vicenda di Saveria Antiochia, “una madre contro la mafia” e del figlio Roberto, ucciso dai killer mafiosi il 6 agosto 1985 accanto al vicequestore Ninni Cassarà, cui faceva, da volontario, la scorta. «Li avete abbandonati», scrisse Saveria, con coraggio, al ministro degli Interni, denunciando l’isolamento in cui erano lasciati gli uomini dello Stato, in quella terribile stagione dei «mille morti a Palermo». Fu testimone attenta ai processi contro i boss, appassionata organizzatrice di dibattiti e incontri sui valori della legalità che avevano ispirato il lavoro del figlio poliziotto, fondatrice, nel paese d’origine, Sariano, nel Polesine, di una sorta di università popolare dell’antimafia. Resta una memoria d’impegno civile da tramandare: «Se è vero che, evangelicamente, l’albero si riconosce dai suoi frutti, l’albero di Saveria non ha cessato di essere fertile».

Ci sono altre storie ancora, cui vale la pena di dedicare attenzione e memoria. Come quella di Emanuele Piazza, soprannominato “il Serpico palermitano”, ricordato da Giacomo Cacciatore, giornalista e scrittore, nelle pagine coinvolgenti di “Uno sbirro non lo salva nessuno” (Dario Flaccovio Editore, pagg. 186, euro 18,00). Scomparve nel nulla nel marzo del 1990, Emanuele. Aveva 29 anni. Una vita inquieta, spesa lungo le strade tortuose di Palermo. E un mestiere scelto con grande passione, il poliziotto, in una città mafiosa che poco ha amato gli uomini delle forze dell’ordine e tanti ne ha visti cadere, uccisi dai killer. Un mestiere abbandonato. Senza smettere comunque mai d’indagare sugli intrecci perversi tra ambienti “legali” e circoli mafiosi. Sulla scomparsa di Piazza apre un’indagine Giovanni Falcone, poco prima di morire. Poi, non se ne sa più nulla. Mezze voci, confidenze di “pentiti”, ombre di boss e di uomini dei servizi segreti, tradimenti. Resta il mistero. Su cui Cacciatore cerca, con maestria di scrittura, di fare un minimo di chiarezza.

C’è un evento, che segna positivamente la vita della Sicilia e dell’intero paese: quella del “maxi-processo”, cominciato a Palermo nel febbraio 1986 e concluso all’inizio del 1992, con una sentenza di Cassazione che conferma il giudizio di primo grado: 19 ergastoli e altre condanne per 2500 anni di carcere per i boss e i killer di Cosa Nostra. Per dirla in efficace sintesi: con quel processo, ben costruito da un pool di magistrati competenti e capaci (in prima fila Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) e ben condotto in aula dalla Corte d’Assise presieduta da Alfonso Giordano, lo Stato ha vinto e la mafia ha perso. Ne resta una robusta eredità di giustizia, ricostruita nelle pagine di “Il processo di mafia” (Torri del Vento Edizioni, pagg. 244, euro 20) a cura di Alfredo Galasso, raccogliendo gli atti d’un convegno organizzato dall’«Associazione per la lotta contro le illegalità e le mafie» intitolata ad Antonino Caponnetto (il magistrato capo del pool antimafia). Gli interventi di magistrati, avvocati, politici, economisti, giuristi, giornalisti (Giovanni Canzio, Rosy Bindi, Piero Grasso, Giuseppe Ayala, Giuseppe Pignatone, Alessandra Dolci, etc.) ricostruiscono non solo la storia del maxiprocesso e il contesto in cui matura, ma insistono anche sui nuovi volti della criminalità mafiosa, tra affari internazionali, nuovi traffici, inquinamenti di politica e pubblica amministrazione. La battaglia dello Stato contro la mafia è ancora aperta. —

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