Il Tirreno

Livorno

In fuga dalle macerie Così siamo sfollati dalla città devastata

In fuga dalle macerie Così siamo sfollati dalla città devastata

Noi nascosti in campagna: scoprimmo che eravamo  accanto alla contraerea quando i caccia la attaccarono

28 maggio 2018
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Il 28 maggio di 75 anni fa la nostra città ha subito un pesantissimo bombardamento: ecco la memoria di quella giornata negli amarcord di Mauro Nocchi, figura di spicco nella storia della sinistra livornese, e di Bruno Pisani, stimato direttore-fondatore dell’Arpat.



La mattina del 28 maggio ’43 mi trovavo in casa con le mie sorelle e il mio fratello. Mamma era corsa al Mercato Centrale per vedere se li sarebbe toccata un po’di “carne di bassa macellazione”, essendosi sparsa la notizia che il cavallo di un barrocciaio si era gravemente infortunato. Mio padre che eccezionalmente si trovava a Livorno, dopo il confino di polizia a Lipari ed a Ventotene e la condanna del Tribunale Speciale Fascista, era a fare qualche giornata, come saldatore, all’Officina Botteghi di Via della Cinta Esterna, una delle due (l’altra era il Cancelli) che, malgrado la “sorveglianza speciale” lo facevano lavorare. Mio nonno, come al solito, pur avendo oltre settant’anni, era andato a lavorare (in nero), a piedi, alla Sicam, nella zona del Porto Industriale.

Verso le 11, 25, suonò l’allarme. Allora, come avevamo concordato con i genitori, ci incamminammo veloci verso il Rifugio nel sotterraneo di un “palazzone” di via Diaz. Dopo il bombardamento, uscimmo dal rifugio per ultimi: fuori l’aria era irrespirabile a causa di una “nebbia” provocata dal crollo dei palazzi e dai calcinacci caduti da quelli che avevano resistito. A cento metri da noi, una bomba aveva preso in pieno la Cantina dei Canottieri al Ponte Nuovo, provocando decine di morti.

Noi, stretti gli uni agli altri, ci avviammo verso la casa dove avevamo abitato. Ma, all’incrocio con via San Francesco, ci accorgemmo che la nostra casa era ridotta ad un cumulo di macerie. Ci preoccupammo subito per mio nonno, perché nei precedenti allarmi, si era sempre rifiutato di venire nel rifugio, preferendo starsene alla finestra a fumare la sua inseparabile pipa e, specie di notte, prendere per il bavero quelli dell’Unpa. Lo vedemmo sbucare dalla via Grande, bianco come un fantasma.

«Ora cosa si fa?». Mio padre prese in “prestito” una carretta abbandonata sull’angolo dove il Pagliai le dava a nolo: vi caricammo alcuni ciottoli, tre sedie, un piccolo materasso e alcune coperte che affioravano dalle macerie. Imboccata la via Grande, notammo subito che le grandi vetrine del Bar Campari (quelle dove schiacciavamo i nostri nasi per guardare le “signore” che gustavano il gelato anche d’inverno, mentre «a noi avrebbe fatto male»). Così era per tutte le finestre sui vetri delle quali avevano imposto di incollare striscioline di carta per impedirli di frantumarsi a causa dello spostamento d’aria.

Mi vergogno un po’ a dirlo ma in piazza Grande ci usci un grido di soddisfazione: una delle tante bombe, aveva colpito il Palazzo della Gran Guardia, ex Questura, dove continuavano a trattenere i “sovversivi” durante i tanti “arresti preventivi” fatti quando venivano a Livorno i gerarchi o nelle “ricorrenze” del fascismo.

Sul Voltone ci apparve la statua di Fattori che sembrava guardare sbigottito quel che era successo. Al 4° piano del palazzo sull’angolo di via della Pina d’Oro, immobile, un uomo, seduto a tavola, sul brandello di pavimento miracolosamente rimasto intatto mentre tutto il resto era crollato. Passammo accanto ad un filobus, all’altezza di via Gazzarrini: l’autista piegato sul volante senza vita.

Giungemmo a Salviano verso le 18 e qui, per fortuna, una famiglia di contadini, liberò dagli attrezzi un piccolo capannone dove potemmo pernottare e, nei giorni successivi, allestire la nostra “casa di campagna” . Finalmente ci sentivamo, quasi, al sicuro. Anche perché nostro padre, approfittando del caos, era riuscito a togliersi di dosso quei due o tre poliziotti che avevano il compito di sorvegliarlo giorno e notte.

Ma i bombardamenti continuavano. Di giorno le “fortezze volanti”. Di notte, dicevano, i caccia inglesi che tendevano a colpire gli obbiettivi militari. Scoprimmo però che, a non più di 200 metri, c’era una batteria contraerea che, all’arrivo del “nemico” , accendeva grandi fari e sparava senza tregua. Finché una notte, udimmo tre o quattro esplosioni più grandi, seguiti da un silenzio inaspettato; i caccia, individuata la contraerea, la distrussero con bombe più potenti. Al mattino, si sparse la voce che, nei campi vicini, c’erano delle grandi buche dalle quali affioravano decine e decine di patate. Ne raccogliernmo qualche chilo, ci servirono per un po’ ad attenuare la fame.

Ora i bombardamenti li vedevamo da più lontano e mio nonno, imperterrito, continuava ad andare a lavorare (sempre a piedi: fino al giorno che si salvò solo perché non era entrato nel “rifugio paraschegge” di via Galilei dove morì un sacco di gente. Per noi ragazzi non andava poi tanto male. Eravamo perfino arrivati a divertirci (si fa per dire) osservando le “fortezze volanti” sganciare grappoli di bombe.

Verso la fine di luglio, si sparse la voce che il fascismo era caduto. La gente esultava per le strade. Ma mio padre, che era riuscito a riprendere i contatti con i suoi compagni clandestini, disse subito che si trattava di un tentativo del re e degli altri gerarchi, di salvare il fascismo senza Mussolini.

Il 9 settembre, in una giornata torrida, mentre i nostri genitori, con una bicicletta “trovata in un angolo” , erano andati alla Caserma di Ardenza, che era stata presa d’assalto da una folla affamata, per cercare di racimolare un po’ di cibo, due motociclette con sidecar e quattro tedeschi, armati fino ai denti e col mitra spianato a significare che «da oggi comandiamo noi», irruppero sull’aia dove il nostro fratellino, seminudo, stava giocando. Mia sorella andò incontro ai nostri genitori per avvertirli del pericolo: si erano appropriati di un sacchetto di farina, che trasportavano sulla canna della bicicletta. Dopo un paio d’ore, i tedeschi se ne andarono. Ma quella era stata la dimostrazione di quali nuovi pericoli andavamo correndo. Mio padre e mia madre decisero subito di trasferirci altrove e, il giorno tutto ricaricammo quel poco che avevamo sulla solita carretta e ci incamminammo verso Collesalvetti. Ma qui ebbe inizio un’altra storia.

Mauro Nocchi



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