Il Tirreno

Livorno

Il top manager indiano salvato a Livorno: «Sono vivo grazie alle cure di Ematologia»

Giulio Corsi
Hemant Bakshi, top manager di Unilever Indonesia, al timone di un motoscafo sul lago di Como prima di sentirsi male
Hemant Bakshi, top manager di Unilever Indonesia, al timone di un motoscafo sul lago di Como prima di sentirsi male

Hemant Bakshi era in vacanza in Toscana con moglie e figli quando si è sentito male e gli è stata diagnostica una grave forma di leucemia: «Volevo tornare subito a Bombay, ma in ospedale ho scoperto una umanità e una professionalità che non dimenticherò»

14 febbraio 2019
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LIVORNO. Era in vacanza in Italia, con la moglie e i due figli, per staccare la spina dalla vita stressante del top manager. Prima il lago di Como, poi la Toscana. Ma si è sentito male. È andato al pronto soccorso di Lucca per farsi visitare e gli è stata scoperta la leucemia. Uno choc. È stato trasferito d’urgenza all’ospedale di Livorno e qui nel reparto di Ematologia, è stato sottoposto ad una terapia che gli ha salvato la vita.

Ora, due anni e mezzo dopo quei giorni drammatici e dopo esser guarito continuando le cure in India, Hemant Bakshi, 53enne, president director della Unilever Indonesia, una delle principali aziende di beni di consumo a livello mondiale, con un portafoglio di 400 brand in oltre 190 nazioni, è tornato a trovare i medici e gli infermieri che tra Lucca e Livorno gli hanno salvato la vita. Poi ha voluto regalare al mondo la sua storia.

L’ha fatto su Medium, una piattaforma di pubblicazione online creata dal cofondatore di Twitter, Evan Williams, dove ha raccontato i 4 giorni che gli hanno cambiato la vita. L’ha chiamato “Intermezzo italiano” e c’ha messo tutto il suo dramma, la paura della morte, il passaggio tragico dalla gioia di una vacanza con la famiglia alla notizia di un tumore, la capacità e l’umanità dei medici e degli infermieri del nostro ospedale, il successo delle cure, la forza con cui il cancro ti stravolge la visione del mondo, per sempre.

IL SUMMER FESTIVAL

È l’estate del 2016. «Mia moglie Roshini e io avevamo programmato la vacanza con molta attenzione, qualche giorno a Como e poi a Lucca per il Summer Festival - racconta Bakshi -: vedere The Earth Wind & Fire e Lionel Richie esibirsi sotto le stelle nella storica piazza di Lucca sarebbe stato il momento clou. I primi giorni sono stati idilliaci, a parte una certa stanchezza. Pensavo fosse il caldo o il jetlag. Spesso chiedevo a Roshini e ai ragazzi di fermarsi. Loro mi prendevano in giro dicendomi che stavo diventando vecchio».

IL SANGUE SUL CUSCINO

«Dopo una bella settimana a Como, abbiamo attraversato la campagna toscana fino a Lucca. È un posto così bello. Strade strette di ciottoli, chiese storiche, vecchi edifici e cibo fantastico. Insieme alla stanchezza, mi sanguinavano le gengive. Vedevo il sangue sul mio spazzolino e trovavo sangue sul cuscino al risveglio. Credevo di aver bisogno di un dentista, ma pensai di aspettare il ritorno a Bombay. La mattina del 13 luglio, il giorno dopo il concerto di Lionel mi sono svegliato con mal di gola, febbre e uno strano livido viola sul petto. Abbiamo chiamato il nostro dottore in India: per lui quella macchia era collegata all’aspirina. La notte però un altro livido mi era comparso sulla pancia. Siamo andati in ospedale e mi hanno fatto un esame del sangue».

LA SCOPERTA DEL CANCRO

Seduto su una poltrona del pronto soccorso il tempo non passava mai. «Ad un certo punto Roshini si è alzata ed è andata a chiedere. Vedevo che non tornava, ero in ansia - racconta il manager -. Allora sono andato a cercarla: l’ho trovata rannicchiata. Stava piangendo. Il dottore che era accanto a lei mi ha detto che avevo un tumore del sangue. La parola Cancro è terrificante, suona come qualcosa di fatale. L'unico pensiero che mi venne in mente fu quanto tempo mi rimaneva, settimane, mesi o chissà».

UNA LEUCEMIA TERRIBILE

Il racconto continua: «Il dottore mi guardò e mi disse di dire a mia moglie di smettere di piangere. Ho abbracciato Roshini, ero confuso: la cosa che volevo di più era andare a casa, stare con i miei figli e Roshini e non rimanere in quell'ospedale. Ma i dottori si erano già messi in moto. Ho chiesto a Roshini di chiamare i medici in India e la mia azienda, la Unilever, per cercare supporto. Mentre ero sdraiato, cercavo su Google notizie sull'Apml, la forma di leucemia che mi era stata diagnostica. Due dottori sono venuti e mi hanno visitato. Uno in inglese mi ha detto: “Nessuno vorrebbe scegliere quale cancro avere, ma io vorrei avere quello che hai tu”. Gli ho chiesto cosa volesse dire e lui ha detto che il cancro che avevo era molto crudele e ad alto rischio, ma che allo stesso tempo ha tassi di guarigione molto alti. Le sue parole sono state importanti, ho capito che non tutto era finito, che avevo una possibilità di combattere. Ho pensato che se c'era qualche possibilità, l’avrei colta».

IN AMBULANZA A LIVORNO

«Non ho avuto molto tempo per riflettere sul mio destino. Ben presto arrivarono Dhruv e Rahil, i miei figli, ansiosi e spaventati. Dhruv era tranquillo, Rahil sconvolto e continuava a chiedermi se sarei migliorato o meno. Mi diceva, babbo, chi mi insegnerà la matematica. Mi ha fatto promettere che sarei guarito. Fummo circondati da un gruppo di medici, l'ospedale di Lucca non aveva un reparto di Ematologia, ma avevano trovato un letto a Livorno e volevano spostarmi lì. Ho chiesto a una dottoressa se c’era un’alternativa e se avessi potuto iniziare il trattamento in India. Lei mi ha risposto bruscamente, dicendo che ero giovane, che avevo una famiglia e che dovevo iniziare subito: la sua decisione di non perdere tempo mi ha salvato la vita. Mi hanno caricato in ambulanza e spedito a Livorno».

IL DOTTORE SAGGIO

«L'ospedale pubblico di Livorno era piuttosto bello. Vecchio edificio con soffitti alti, vernice scrostata dalle pareti. Mi ha ricordato l’ospedale civile di una piccola città in India. Era stranamente silenzioso, nei corridoi non c’era nessuno. Sono stato messo in una grande stanza singola. Tenendoci per mano io e Roshini ci chiedevamo che cosa il destino avesse in serbo per noi. Dopo un po’ è arrivato il dottore, un uomo anziano, piccolo di corporatura. Aveva con sè una stampa presa da internet: era il mio protocollo di cura. Ci spiegò che la terapia era ben consolidata e i tassi di guarigione erano buoni, quasi l'80%, ma doveva iniziare subito. Non mi ha ispirato troppa fiducia e quella stampa da internet mi ha preoccupato, come se avesse fatto una ricerca sulla malattia come avevo fatto io su Google, ma i suoi modi erano rassicuranti. Era calmo e saggio, più prete dottore».

LE INFERMIERE PAZIENTI

«Sentivo le mie condizioni deteriorarsi. La coppia di lividi viola si era diffusa in altre parti del corpo: erano segni di sanguinamento interno. Non riuscivo ad ingoiare nulla. Ero esausto, non avevo nemmeno l'energia per girarmi nel letto. Volevo solo iniziare la terapia ma tutto sembrava muoversi al rallentatore. Il dottore tornò dopo un po' con un paio di infermiere e un farmaco chiamato Atra, spiegandomi che era la medicina decisiva e avrebbe controllato l'emorragia interna. Tuttavia, non potevo ingerire le capsule perché la mia gola era completamente infiammata e non era possibile somministrare il medicinale per endovena. Così, ha chiesto alle infermiere di aprire ognuna delle capsule, prendere il liquido dall'interno sulle loro dita e massaggiarlo nelle mie gengive. Le due infermiere hanno iniziato a turno e hanno iniziato questo processo che ha richiesto molto tempo. Non parlavano inglese, ma i loro modi erano molto confortanti. Ero grato che fossero disposti a sedersi pazientemente accanto a me e a strofinare lentamente quella medicina nella mia bocca. Nella notte mi svegliavo in continuazione: è stata la prima volta che ho affrontato il pensiero di morire. Stranamente non avevo paura, ma mi sentivo triste, non avrei visto crescere i miei figli, non avrei trascorso più tempo con loro. Fui svegliato dal dottore che voleva eseguire una puntura lombare e prelevare il liquido spinale. Lui non me l’ha detto ma ho potuto capire che era molto preoccupato: avevo lividi dappertutto, il mio corpo era gonfio, non riuscivo a muovermi. Ha fatto il prelievo, poi ha detto che aveva bisogno subito del sangue per iniziare la trasfusione. Quel medico si comportava più come uno di famiglia, che come primario. Finalmente è iniziata la trasfusione. Nel frattempo la Unilever ha mandato il medico dell’azienda da Milano: c'era qualcuno che sapeva parlare la mia lingua e comunicare con il personale di Livorno».

CURE GRATUITE

«Le notti erano difficili. Il corpo mi faceva male, avevo messo su 6 kg per l’enorme quantità di sangue trasfuso. Quando dopo 3 giorni ci fu permesso di trasferirci a Milano ho chiesto a Roshini di prendere la mia carta di credito e di pagare. Siamo rimasti sbalorditi quando l'ospedale ha detto che non gli dovevamo un centesimo. Ho scoperto che la qualità del trattamento che ottieni in Italia non è legata alla tua capacità di pagare ma alla gravità della tua condizione. Mi è stato dato il miglior trattamento, non perché l'ospedale avrebbe guadagnato, ma perché era loro la responsabilità di tenermi in vita. Spero che un giorno il mio Paese con così tante persone sfortunate con problemi molto peggiori del mio possa avere lo stesso modo di trattare le persone».

L’ADDIO A LIVORNO

«Mi è quasi dispiaciuto dire addio alle infermiere che si sono prese tanta cura di me. È stato toccante quando mi hanno accompagnato e ognuno ha detto una preghiera per me mentre salivo sull'ambulanza. Anche il dottor Enrico Capochiani (il primario di Ematologia, ndr), una persona speciale, è venuto a salutarmi: aveva scritto un biglietto che ho conservato fino ad oggi, in cui diceva che c'era un motivo per cui le nostre strade si erano incrociate e lui aveva il privilegio di essersi preso cura di me. Gli dispiaceva che non avrei terminato il trattamento a Livorno e di non avermi potuto guarire definitivamente. Non avevo parole per ringraziarlo abbastanza, ma gli promisi che sarei tornato un giorno per ringraziarlo, se tutto fosse andato bene. Sono stato davvero fortunato ad aver incontrato degli estranei completi che, in maniera disinteressata, hanno fatto di tutto per aiutarmi e mi hanno dato la possibilità di lottare per tornare in salute». 

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