Il Tirreno

Lucca

il rapporto caritas 

Avere un lavoro non basta più per sconfiggere la povertà

Luigi Spinosi
Avere un lavoro non basta più per sconfiggere la povertà

Cresce il fenomeno degli occupati che si rivolgono ai centri di ascolto  Preoccupano in chiave futura i tagli delle famiglie all’istruzione dei figli

17 novembre 2018
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LUCCA

I numeri parlano. Magari non riescono a dire tutto ciò che potrebbero, ma parlano. Anche perché quei numeri, quelli contenuti nel dossier Caritas sulla povertà, presentato ieri all’arcivescovado di Lucca, e relativo alla nostra provincia, dietro a quei numeri ci sono persone, storie, drammi. Una relazione lunghissima (70 pagine) e significativa, già a partire dal titolo (“Non sulla pelle dei poveri”) e, soprattutto, dal sottotitolo: “Traiettorie fuori dalla povertà nella società del rancore”.

La presentazione è arrivata alla vigilia della Giornata Mondiale dei Poveri, che sarà celebrata domani (e preceduta anche da un momento culturale e di riflessione, con la rappresentazione – ieri sera in cattedrale – dedicata alla figura di Madeleine Delbrêl). A illustrare il rapporto, impresa non facile visto che ogni pagina meriterebbe un’analisi approfondita, la direttrice dell’ufficio pastorale Caritas Donatella Turri, Alessandro Toccafondi, la sociologa che ha analizzato e illustrato il rapporto Elisa Matutini e, in rappresentanza del vescovo, assente per motivi di salute, monsignor Michelangelo Giannotti.

Proprio don Michelangelo ha aperto l’incontro, citando San Paolo e ricordando come non può esistere una carità che non sia universale, dove l’unico elemento di cui tener conto è il bisogno dell’altro, chiunque egli sia: «Chi non ha il cuore aperto non può dirsi cattolico, la chiesa non è per le messe, le candele e basta». Quindi, facendosi portavoce del vescovo, ha sottolineato la preoccupazione che emerge da quel rapporto, soprattutto per quanto riguarda le difficoltà occupazionali e la preoccupazione per i giovani, ma anche per esprimere «gratitudine verso chi tende la mano in un clima di sempre meno velata ostilità».

Poi la presentazione del rapporto, da parte di Donatella Turri ed Elisa Matutini un rapporto diviso in due parti: la prima dedicata ai dati che emergono dall’analisi dei centri di ascolto Caritas distribuiti in tutta la provincia e alla loro analisi, la seconda, invece, dedicata alla percezione del lavoro fatto dagli operatori Caritas.

Già, il rapporto. Per quanto difficile, pensando a cosa rappresentano, bisogna per forza ricorrere ai numeri. Il primo : 1.721. Tante le persone che si sono rivolte ai centri Caritas nel 2017. Un numero ancora alto e, come avviene da qualche anno a questa parte, un dato ancora in crescita rispetto a quello precedente (nel 2016 le persone furono 1.669), pressoché equamente diviso tra utenti italiani (43%) e non (57%) e tra uomini (48%) e donne (52%).

Ma il dato più importante è rappresentato da un altro numero: 425. Tante le persone che, per la prima volta, si sono rivolte a un centro di ascolto. Questo vuol dire diverse cose, su tutte un paio: che c’è un disagio economico crescente, ma anche che, in molti casi, i percorsi di accompagnamento attivati dalla Caritas funzionano, visto che, facendo due conti, per 425 persone che hanno lanciato un Sos, ve ne sono circa 300 che dopo averlo fatto nel 2016, non ne hanno avuto bisogno nel 2017. Ma in realtà il quadro non è così semplicistico, con situazioni che, a distanza di anni continuano ad aver bisogno di aiuto.

E poi attenzione, quel 1.721 nasconde un numero ben più grande, perché quasi sempre dietro il singolo che arriva al centro Caritas vi è una famiglia, una compagna, dei bambini. Quindi una stima probabilmente più corretta parla di almeno 6mila persone in serie difficoltà, perché la richiesta di aiuto, per molti, rappresenta una extrema ratio. Alla Caritas, come è stato detto, si va quando ormai si è con l’acqua alla gola, quando non si vede altra via di uscita.

Il quadro della società disegnato da quei numeri per niente freddi descrive tante situazioni difficili, tanti problemi diversi. Ma, tra i molti, spiccano due aspetti che, forse più di altri, meritano di essere messi in evidenza.

Il primo è quello dei “working poor”, i lavoratori poveri. Adesso si assiste a un nuovo fenomeno: una fetta crescente di persone che si rivolgono ai centri ha un lavoro, ma per tante ragioni (perché è un’occupazione instabile, perché il reddito è basso, perché è l’unico in famiglia, o perché occorre affrontare le conseguenze di una separazione), arrivare in fondo al mese diventa difficile. Impossibile se capita una spesa imprevista.

Si taglia su tutto, e i primi a rimetterci (e qui si passa al secondo grande tema) sono i bambini. A partire dai tagli sulla loro scolarizzazione. E si genera così un circolo vizioso: il livello di istruzione dei nuovi poveri è quasi sempre medio-basso o basso. E se non si riesce a garantire ai bambini di oggi un’adeguata istruzione, si rischia di creare sin da oggi la generazione dei poveri di domani. —

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