Il Tirreno

5 settembre 1938: il re firma a San Rossore le leggi razziali, inizia il calvario degli ebrei

Fabio Demi
Sulla vetrina di un negozio si affigge il cartello: "Negozio ariano"
Sulla vetrina di un negozio si affigge il cartello: "Negozio ariano"

Vittorio Emanuele III, nel suo "buen ritiro" estivo di Pisa, non ha la forza di opporsi alla persecuzione decisa da Mussolini. Primo effetto: cacciati dalle scuole. Licenziati in tronco i dipendenti pubblici, impedito l’accesso alle professioni. I provvedimenti antisemiti si susseguirono per anni

03 settembre 2018
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PISA. Accuratamente preparata da una martellante campagna di stampa, nell’estate-autunno del 1938 il regime fascista inaugurò la sua sciagurata politica di persecuzione degli ebrei. Nell’alleata Germania, i provvedimenti antisemiti erano in vigore da anni e, per suggellare la vicinanza a Hitler, il duce aveva bisogno di colmare la lacuna. Bisognava che anche in Italia ci fossero delle norme per discriminare quella che ormai era stata bollata come “la razza ebraica”. Una razza nemica. Recitava lo strampalato “Manifesto degli scienziati razzisti”, pubblicato a metà luglio del ’38 sui giornali: «Gli ebrei non appartengono alla razza italiana... Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli italiani». Il segnale era chiaro.

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LE PASSEGGIATE DEL SOVRANO

Le prime leggi razziali furono firmate dal re Vittorio Emanuele III il 5 settembre 1938 nel suo buen ritiro estivo della tenuta di San Rossore, dove la famiglia reale ogni anno passava il congruo periodo di vacanza che andava da inizio giugno ai primi di novembre. Dopo la canonica passeggiata sulla battigia di quell’autentico paradiso terrestre, con i calzoni rimboccati per non bagnarli, e prima del pranzo con l’immancabile scaglietta di grana a fine pasto, Vittorio Emanuele sbrigò dunque il delicato affare di Stato, assecondando la volontà di Mussolini. Firmò l’espulsione degli insegnanti e degli studenti ebrei da scuole e atenei. Agli universitari, come concessione, fu consentito di portare a termine gli studi. Nello stesso funesto 5 settembre, il re autografò un altro decreto con cui il regime creava organismi ad hoc per attuare la politica razziale. 

ERA SOLO L'INIZIO...

Due giorni dopo, 7 settembre, una nuova firma: stavolta ad essere presi di mirafurono gli ebrei stranieri, costretti a lasciare tutti i territori del Regno. Era solo l’inizio, purtroppo. La legislazione antiebraica continuò in un autentico crescendo rossiniano. Il 6 ottobre la materia fu portata all’attenzione del Gran Consiglio del fascismo che, anche in seguito alla conquista dell’Impero, affermò solennemente «l’attualità urgente dei problemi razziali e la necessità di una coscienza razziale». Il 17 novembre il calvario degli ebrei conobbe un’altra data della vergogna. Fu approvato il testo fondamentale della discriminazione, con il quale si dava la definizione giuridica di ebreo, si proibivano i matrimoni misti e si licenziavano in tronco i dipendenti ebrei dai posti pubblici (amministrazioni civili e militari dello Stato, Province, Comuni, aziende municipalizzate ed enti vari).

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L’infame stillicidio continuò nel 1939 con un decreto sulle limitazioni alla capacità patrimoniale degli ebrei e un altro che disciplinò l’esercizio delle professioni. O meglio: agli ebrei fu impedito di fatto l’accesso a un lungo elenco di attività, come medico, giornalista, farmacista, veterinario, ostetrica, avvocato, ragioniere, notaio, architetto, chimico, agronomo, perito agrario o industriale.

Leggi circostanziate, puntigliose, inesorabili nel colpire gli obiettivi, che non si fermarono mai fino a quando il fascismo fu al potere. Le ultime disposizioni draconiane vennero prese dalla Repubblica sociale, quando gli ebrei furono oggetto di una colossale rapina di ogni loro bene.

Restava loro soltanto la vita, ed anche quella era costantemente minacciata, molte volte tolta, comunque sempre esposta al capriccio dei gerarchi fascisti o degli occupanti nazisti. Le aberranti vicende dei rastrellamenti, dei campi di concentramento e dei campi di sterminio sono note. E le disposizioni vennero applicate con rigore dai solerti funzionari statali, anche se poi, soprattutto quando la furia nazifascista si abbattè sugli ebrei in tutta la sua violenza, ci furono numerosi episodi in cui la popolazione manifestò concretamente la sua solidarietà nei confronti dei perseguitati.

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LE BUGIE DELLA PROPAGANDA

La propaganda fascista, per giustificare discriminazione e persecuzione, presentò gli ebrei come una spaventosa piovra che stendeva i suoi tentacoli mortali sui gangli vitali della società nazionale. In realtà nel 1938 gli ebrei in Italia erano una sparuta minoranza, circa cinquantamila persone, poco più di unmillesimo della popolazione. Inoltre erano integrati e assimilati, e gli italiani, con l’eccezione di una piccola lobby che aveva fatto dell’odio contro i giudei una ragione di vita, non erano antisemiti.

Senza contare che non mancavano gli ebrei fascisti: in 230 avevano partecipato alla marcia su Roma, e nel 1922 circa 750 erano iscritti al partito di Mussolini. E ancora: lo stesso duce, come sottolinea Renzo De Felice nella sua “Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo”, non aveva particolari prevenzioni nei confronti degli ebrei. Ancora nel 1934, dileggiando la politica razziale di Hitler in Germania, ebbe modo di dichiarare che «trenta secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine di oltre Alpe, sostenute dalla progenie di gente che ignorava la scrittura con la quale tramandare i documenti della propria vita, nel tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio e Augusto».

I MOTIVI DELLA TRAGEDIA

Allora perché la scelta della persecuzione, che la stragrande maggioranza degli italiani non comprese fino in fondo? Come maturò questa decisione nella mente del capo del fascismo? Cosa pensava di guadagnarci? L’elemento principale che mosse il duce fu la necessità di eliminare il più evidente contrasto nella politica dell’Italia e della Germania, ormai sempre più vicine e decise a intrecciare i rispettivi destini. Il razzismo e l’antisemitismo di Stato avevano un peso preponderante per la Germania nazista, e l’Italia ben difficilmente avrebbe potuto mancare di adeguarsi, pena la ridotta credibilità dell’alleanza. E così anche per gli ebrei italiani si spalancò il baratro.

Tra l’altro le comunità ebraiche, in linea di massima, furono colte di sorpresa dal precipitare della situazione. Mai avrebbero creduto, nonostante le numerose avvisaglie, che anche in Italia si sarebbe arrivati a misure così gravi contro di loro. Quando fu chiaro quello che stava accadendo, chi poté lasciò il Paese. Chi rimase, trascorse anni durissimi. E tanti non ce la fecero. 

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