Calcio e razzismo, una piaga da combattere e da estirpare. I recenti fatti di Roma, con l'oltraggiosa iniziativa di un gruppo di ultras laziali legati alla falange più estremista del tifo biancoceleste, stanno facendo discutere a livello nazionale. Gli adesivi con l'immagine di Anna Frank appartengono ad un libro che ha molti capitoli, alcuni di vecchia data. L'antisemitismo dichiarato di molti estremisti di destra è, purtroppo, un problema reale e molti di questi individui che si professano 'neofascisti' o 'neonazisti' frequentano le Curve di alcune delle società di calcio più famose d'Italia.

Naturalmente il problema non riguarda solo il Belpaese, ma investe con dimensioni più o meno gravi gli altri campionati d'Europa. Però l'odio contro gli ebrei è solo una sfaccettatura, esistono varie tipologie di razzismo e, paradossalemte, la tifoseria più estremista e razzista d'Europa è addirittura israeliana.

Beitar Gerusalemme, calcio e politica

La squadra in questione è tra le più famose del calcio israeliano. Il nome completo del club è Moadon Kaduregel Beitar Yerushalayim, noto a livello internazionale come Beitar Gerusalemme. Il nome stesso dice tutto, il Beitar è affiliato al movimento 'Betar', la sezione giovanile ancora esistente del vecchio Partito Revisionista Sionista fondato negli anni '20 da Vladimir Zabotinskij come movimento culturale nazionalista ed anti-comunista.

Successivamente è stato assorbito dal partito Herut, componente storica a partire dai primi anni '70 del partito Likud che ha avuto i suoi maggiori esponenti in Yitzhak Shamir, Ariel Sharon e l'attuale premier, Benjamin Netanyahu. La tifoseria dei Beitar, pertanto, ha come punti di riferimento politici i celeberrimi 'falchi' sionisti.

I puristi dell'ebraismo

Il Beitar Gerusalemme è stato fondato nel 1936, dunque dodici anni prima della nascita dello Stato d'Israele. A quell'epoca il calcio era uno sport già praticato, considerato che la zona era sotto mandato britannico, ma la neonata società si distinse subito per le sue turbolenze, diventando espressione dell'ala sionista più estrema.

Motivo per cui venne sciolto nel 1938 a causa della presenza di esponenti dell'organizzazione terroristica Irgun. Nel 1942 venne rifondato, stavolta come società professionista, ma venne nuovamente sciolto dall'autorità britannica nel 1947. L'anno della definitiva rinascita è per l'appunto il 1948, in concomitanza con la proclamazione dello Stato d'Israele. Ai giorni nostri, il Beitar è una delle quattro squadre della città di Gerusalemme ed è l'unica a militare in Ligat ha'Al, la serie A israeliana. Le altre tre formazioni sono l'Hapoel Gerusalemme (società polisportiva che comprende anche la squadra di basket) che milita in seconda divisione al pari dell'Hapoel Katamon. La quarta squadra rappresenta la zona araba di Gerusalemme, l'Hilal Al-Quds che milita nella West Bank League, il principale dei due campionati palestinesi (l'altro è la Gaza Strip League, il torneo della Striscia di Gaza).

Il Beitar è un club titolato, 6 volte campione d'Israele e 7 volte vincitore della Coppa nazionale, ma la fama dei suoi supporters offusca quella della stessa squadra. 'La Familia' è un gruppo di tifo organizzato dichiaratamente razzista nei confronti degli arabi e di qualunque persona di fede islamica, oltre che accanito sostenitore del 'purismo ebraico'. "Per sempre puri" è il motto degli ultras del Beitar che si definiscono in maniera inequivocabile "razzisti nei confronti di tutti gli arabi". I giocatori arabo-israeliani che militano in Ligat ha'Al sono tantissimi, ma i fanatici tifosi del Beitar hanno sempre impedito alla propria società di acquistarli. Quando è accaduto, questi atleti sono stati costretti a lasciare il club anche con la violenza.

Beitar, i casi di razzismo più eclatanti

Ci sono stati dei giocatori musulmani in forza al Beitar, la cui fede religiosa è stata tenuta nascosta per la loro sicurezza. Accadde alla fine degli anni '80 con il russo di origine tagika, Goram Ajoyev e, tra la fine degli anni '90 ed i primi anni 2000 con l'albanese Viktor Paco. Non fu possibile, invece, con il nigeriano Ndala Ibrahim, arrivato in prestito dal Maccabi Tel Aviv nel 2004 e costretto a lasciare la squadra dopo appena cinque partite a causa delle minacce di morte nei suoi confronti di alcuni ultras. Nel 2013, causa anche la pressione dell'opinione pubblica e la pessima fama del Beitar a livello internazionale, la dirigenza decise di acquistare i russi Dzhabrail Kadiyev e Zaur Sadayev, entrambi musulmani.

I due atleti venivano puntualmente insultati ad ogni allenamento ed i tifosi commisero addirittura un attentato incendiario ai danni della sede societaria. L'astio non si placò nemmeno dopo il primo gol di Sadayev in maglia giallonera, gli ultras decisero addirittura di lasciare lo stadio. Entrambi i calciatori, stanchi dei continui soprusi, lasciarono Gerusalemme. Occorre precisare che il Beitar gode di simpatie piuttosto altolocate, visto che tra i suoi tifosi più accesi ci sono il primo ministro Benjamin Netanyahu ed il ministro Avigdor Lieberman.

Il razzismo non ha un colore

Naturalmente le vicende del Beitar non giustificano assolutamente il problema dell'antisemitismo diffuso negli stadi italiani ed europei, ma sono la dimostrazione di come il razzismo sia legato a doppio filo con molte tifoserie organizzate e non abbia un vero colore.

Bianco o nero, cristiano, ebreo o musulmano, ognuno è 'nemico' e sinonimo di odio se visto con gli occhi di chi va allo stadio per sfogare i peggiori istinti. Il calcio, purtroppo, è ormai da anni occasione per mettere in pratica le politiche più estremiste, ma considerato ciò che accade a Gerusalemme e che viene addirittura 'benedetto' dalle autorità che, al contrario, dovrebbero porre un freno a questi fenomeni, l'immagine dell'ebreo perseguitato viene decisamente meno. La discriminazione va combattuta ad ogni livello ed è giusto essere solidali con la comunità ebraica di Roma, ma anche con la comunità palestinese. Altrimenti le manifestazioni sono soltanto vuota retorica al pari delle 'sceneggiate' evocate da Claudio Lotito. Quest'ultimo, in quanto presidente di una società nell'occhio del ciclone e noto per alcune sue 'uscite' discusse e discutibili, ha perso un'altra buona occasione per tacere.