In Birmania, tra il 2016 ed il 2017, è tornata all'attenzione degli osservatori internazionali una situazione che affligge il paese da quando ottenne l'indipendenza dall'impero britannico nel 1948. Ma chi sono i rohingya e perché in quasi settant'anni non si è trovata una valida soluzione alla loro drammatica situazione?

Cenni storici

La Birmania ha da sempre avuto una storia difficile alternando periodi di governi democratici a periodi di regimi repressi. Situata nella zona sud orientale dell'Asia, tra India, #Bangladesh, Cina e Laos, ottenuta l'indipendenza, ha vissuto un periodo di governo democratico fino al 1962.

In quell'anno il generale socialista Ne Win instaurò una dittatura violenta e repressiva durata fino al 1988, anno in cui i movimenti studenteschi, dopo una una sanguinosa guerriglia, portarono il paese a elezioni "libere", nel 1990. Tali elezioni lanceranno la figura si Aung San Suu Kyi, premio nobel per la pace nel 1991, leader della Lega Nazionale per la Democrazia (LND) dal 2011 e attuale consigliere di stato. Nonostante il risultato delle elezioni del 1990 Suu Kyi è però da subito ostacolata dai fedelissimi del generale Win e sarà costretta a vivere quasi sempre in stato di prigionia fino al suo rilascio definitivo avvenuto nel 2010. Nello stesso anno otterrà ottimi risultati alle elezioni, ma, ancora una volta, le giunte militari le negheranno la possibilità di governare il paese che verrà invece affidato al Partito dell'Unione per la Solidarietà e lo Sviluppo guidato da Thein Sien, un generale dell'esercito.

Soltanto con le elezioni del 2015, giudicate "le più libere nella storia del paese", nonostante il 25% dei seggi da regolamento venga assegnato ai vertici militari, l'LND otterrà il 57,95% dei voti con seguente nomina di Suu Kyi alla guida del paese.

Il problema dei Rohingya

I Rohingya sono una minoranza musulmana sunnita che vive nello stato del Rakahine nella zona ovest della Birmania.

Dagli ultimi dati disponibili (2012) dei due milioni di Rohingya solo 800 mila vivono ancora in Birmania (rappresentando meno di 1/50 della popolazione locale). Soltanto nel 1948 verrà loro concesso il diritto a richiedere la cittadinanza Birmana insieme ai fondamentali previsti dagli organismi internazionali. Negli anni della democrazia questa minoranza arrivò a farsi eleggere in alcuni parlamenti locali e visse un periodo abbastanza sereno.

I problemi arrivarono con la dittatura socialista di Win che avviò, a partire dal 1970, delle durissime campagne di rastrellamenti contro tale minoranza che fu costretta ad armarsi per tentare di difendere ciò che da sempre è considerata "casa". Ovviamente ebbero la meglio di i militari di Win che provocarono uno dei maggiori esodi dei Rohingya; infatti durante queste repressioni migliaia furono i morti e centinaia di migliaia i profughi che si diressero principalmente verso il Bangladesh. Le violenze sono riprese ancor più duramente nell'estate del 2017 quando le forze birmane hanno ucciso centinaia di musulmani e crearono quasi 600 mila nuovi profughi dallo stato del Rakhine.

Le denunce delle ONG e la posizione di Suu Kyi

Molte sono statele accuse da parte delle principali ONG, quale Amnesty International, verso il governo del premio nobel Suu Kyi ritenuta responsabile di aver voluto ignorare il perpetrarsi di tali aberranti violenze. Sono inoltre state lanciate pesanti accuse contro le forze armate colpevoli, sempre secondo le organizzazioni internazionali, di aver incendiato interi villaggi Rohingya e di aver ucciso, violentato e torturato migliaia di abitanti; i militari avrebbero inoltre sistemato delle mine antiuomo per scoraggiare i rifugiati, che attualmente si trovano in Bangladesh o altri paesi, dal rientrare in quella che una volta consideravano la loro patria.

Singolo stati come gli Stati Uniti o addirittura la poco tollerante Turchia, attraverso i loro rappresentanti, hanno esortato la leader dell'LND a trovare una soluzione pacifica per quelli che dovrebbero essere i propri cittadini. Seppur non tempestiva non è mancata la denuncia delle Nazioni Unite che ha accusato il governo di aver pianificato "una vera e propria pulizia etnica" nel paese ed ha puntato il dito verso il consigliere di stato per aver taciuto al riguardo e per non essere intervenuta nella vicenda. Nell'ottobre scorso Suu Kyi si è trovata in disaccordo con le accuse lanciate al suo governo; il 2 novembre la leader del l'LND si è recata nello stato del Rakhine dove avrebbe chiesto in modo superficiale alle varie etnie presenti nel paese di "non litigare tra di loro", esortando i Rohingya ad arrivare alla pace attraverso il dialogo.

Gli occhi degli osservatori internazionali sono puntati verso la Birmania ed il suo leader e sperano che questo tanto promesso dialogo non risulti in un nulla di fatto o, nella peggiore delle ipotesi, in altre violenze contra questa minoranza etichettata di recente come "la più perseguitata al mondo". Ci si augura inoltre una rapida soluzione della questione in considerazione del fatto che i paesi confinanti, che "ospitano" questa minoranza, hanno dichiarato di che potrebbero essere costretti ad un rimpatrio forzato dei Rohingya che vengono considerati immigrati e non profughi. Sulla questione si è, inoltre, espressa Malala Yousafzai, vincitrice del premio nobel per la pace nel 2014, che si dice delusa dal comportamento incoerente di Suu Kyi che, dopo aver vinto anch'essa un premio Nobel per la pace, è diventata una vera militarista permettendo queste violenze inaudite.

La situazione nello stato di Rakhine resta critico per i Rohingya che non possono che augurarsi di tornare nelle loro case e di poter tornare a mantenere gli standard di vita che avevano nel lontano periodo democratico del 1948.