La debacle dell’Italia alle qualificazioni mondiali ha lasciato una ferita aperta nell’animo di tutti i tifosi. Perché prima di vincere il Mondiale o piazzarsi dignitosamente era importante parteciparvi, sentirsi per qualche settimana parte di un unico collettivo, al di là della competizione feroce e dell’odio calcistico che imperversano nelle domeniche di campionato.

Come tutte le delusioni profonde ha aperto dibattiti, polemiche e corse contro il tempo per cercare e punire i colpevoli. Di Ventura e Tavecchio se ne sono dette tante e, come era prevedibile aspettarsi, vengono considerati, dai più, i principali artefici del clamoroso tracollo.

La verità, come sempre, sta nel mezzo. Un presidente eccessivamente politicizzato e un allenatore troppo sicuro di sé e inesperto a grandi livelli non sono e non possono essere le uniche cause di questo fallimento. Così come non lo può essere la presenza di pochi italiani nelle rose delle principali squadre di serie A. E’ vero che rispetto al memorabile 2006 il numero di stranieri è cresciuto quasi del 20%, ma è anche vero che attualmente l’Italia è in perfetta media con i principali campionati europei. La globalizzazione e la mobilità di capitali e della forza lavoro hanno, logicamente, portato i loro effetti anche sullo sport. E non resta che adeguarsi ai tempi e cercare di fare di necessità virtù.

Quindi la mancata qualificazione è solo frutto di una generazione calcistica povera di talenti?

No, la principale causa, probabilmente, ha radici culturali. L’Italia è una nazione che è nata e vive su profonde contraddizioni. Fortemente divisa e in continua lotta al suo interno, ma estremamente unita verso l’esterno. E’ un paese che trae forza e vita dai sacrifici, dalle difficoltà, dalla condizione esistenziale del “non potercela fare”.

E quando questa condizione è condivisa la forza si triplica.

Tutto questo si riflette nello sport che come in ogni attività umana ha nella mente il principale alleato o in alcuni casi, purtroppo, ostacolo. L’Italia non ha il senso ottusamente patriottico e predominante degli USA e della Germania o la meticolosa ossessione per il lavoro della Cina, paesi che negli anni si sono imposti in tante discipline sportive.

Ma ha una qualità difficile da replicare, l’ostinazione. L’idea che anche e soprattutto nelle situazioni di sofferenza può far uscire il meglio di sé.

Non è una formula matematica, ma non può, altresì, essere un caso il mondiale del 2006 vinto mentre in terra madre il calcio stava vivendo il peggior dramma della sua storia. Non è un caso che le partite più in bilico siano state con squadre sulla carta più che abbordabili, così come nell’1982 non sono un caso i 3 pareggi consecutivi nella prima fase e poi le vittorie indimenticabili con il Brasile di Zico e Falcão, l’Argentina di Maradona e Passarella e la Germania di Rummenigge.

Non possono nemmeno essere una coincidenza, a livello di club, la partita di Champions dell’Inter a Barcellona nel 2010, della Juventus contro lo stesso Barcellona o contro il Real negli anni recenti o del Milan a Manchester nel 2007.

L’Italia di Ventura non ha avuto quell’ostinazione, quella forza nella sofferenza, proprio come è mancata alla Juventus nell’ultima Champions o al Milan del 3-0/3-3 del 2005. E’ stata presuntuosa, siamo stati presuntuosi, abbiamo avuto la sicurezza di qualificarci fino all’ultimo calcio d’angolo della partita a San Siro. Non abbiamo mai avuto il timore, non ci siamo mai sentiti in difficoltà e abbiamo perso la nostra qualità più importante. Quella che per due sere ci ha rubato la Svezia e che ha spinto quel colpo di testa di Belotti a 20 centimetri dal palo o quella che spinse il calcio di rigore di Trezeguet sulla traversa.