«Fui violentata sulla strada verso Varzi»
Ljuba Rosa, moglie dell’editore Andrea Rizzoli racconta il dramma della sua adolescenza
di ANNA MANGIAROTTI
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È stata la moglie dell’editore Andrea Rizzoli, figlio del “Cumenda”, e prima ancora la compagna del petroliere Ettore Tagliabue. Nella sua autobiografia “Io Brillo” (con Tiziana Sabbadini, Cairo editore) Ljuba Rosa, 85 anni, racconta una vita immersa nel jet set internazionale, fra immense ricchezze, tavoli da gioco, brillanti da 26 carati, grandi rovesci di fortuna e un “dolore che non finisce mai” – la perdita della figlia Isabella, morta suicida a 24 anni – passando dall’adolescenza da sfollata in Oltrepo, fra Varzi e Rivanazzano, il ginnasio a Voghera dalle suore, una violenza subìta a 16 anni in una locanda vicino a Varzi.
Sfollata in Valle Staffora. Figlia di un industriale milanese (il padre Pietro aveva fondato la Trapani Rosa), Ljuba vive un’infanzia di bimba ricca, poi arrivano i bombardamenti e la guerra, da Milano bisogna scappare. «Papà sull’Aprilia guidava a fari spenti in direzione Varzi – ricorda Ljuba – verso una nuova vita campagnola. Addio scarpe di vernice à la bebè e messa in Duomo, mi son trovata tra capre, galline e un cavallino che montavo a pelo». Infilava fra le lenzuola il “prete” per scaldare il letto, a 11 anni si nascondeva nel fienile col figlio del fattore: «Le prime emozioni della camporella per me, lui sarebbe diventato sacerdote».
Gli aerei mitragliatori passano sopra le teste, il fratello maggiore fugge per fare il partigiano. Altro trasloco a Bagnaria dove nel 1944 una camionetta di tedeschi arriva a cercare quei partigiani: «Tutta la famiglia contro un muro, i tedeschi sfondano le porte con il calcio dei fucili» Non trovano nessuno, se ne vanno. La famiglia Rosa si trasferisce ancora: a Rivanazzano sono ospiti degli aristocratici Zelaschi, «in un castello di tante stanze affrescate, dove abitava anche una pattuglia di Ss». Maurizia Zelaschi, «mascolina, calzettoni bianchi, organizzava serate di intrattenimento per i militari». Prende in simpatia la ragazzina Ljuba, poi le farà conoscere Wally Toscanini, figlia del maestro, «sempre in coppia con la stilista Biki, nipote di Giacomo Puccini». Nell’atelier Biki qualche anno dopo anche Ljuba sfilerà. Arriva il 1945, gli alleati bombardano Milano dove torna anche Ljuba con la famiglia, e vede i corpi di Mussolini e Claretta appesi a piazzale Loreto, coperti di sputi. Ma la bella casa dei Rosa in viale Monza non c’è più, distrutta dalle bombe: si deve tornare in Oltrepo, a Villa Pisani a Rivanazzano.
Il Ginnasio a Voghera. «Intanto il mio corpo prendeva la strada della bellezza. Capelli castani e lunghi, viso dalla bocca perfetta, occhi cerbiatti, seno prosperoso, vita sottile». La 16enne Ljuba allo specchio canta Amado Mio, come Rita Hayworth in Gilda. È il 1948: ricomincia ad andare a scuola, «prendevo il trenino per Voghera dove frequentavo il ginnasio dalle monache agostiniane». È alta, la mettono nell’ultimo banco. Un professore «figlio di un medico si sedeva accanto a me». Lei era felice, al centro dell’attenzione di un uomo importante. Un giorno lui dice: «Ti porto a casa io, in macchina».
La violenza al Monte Penice. «Mi convince a deviare vicino a Varzi per una gita». Si fermano in un baretto: «Prendiamo la cioccolata in una stanza da soli per star tranquilli, dice lui, senza gli anziani che giocano a carte». In camera l’uomo gira la chiave nella toppa, «e come un bulldozer mi piomba addosso. Non ci sono stati pugni abbastanza per fermarlo. Era la mia prima volta». Ljuba pensa al padre «che m’aveva cresciuta come una perla rara. Non potevo dirglielo». Poi il professore la riporta a casa, muta. «Mi metto a letto come malata, dopo due settimane in catalessi ho 40 di febbre». Solo allora «papà decide di portarmi all’ospedale». Lì arriva anche il figlio del medico, il prof stupratore: «È lui a darmi il responso: gravidanza extrauterina con emorragia interna. Avevano in mente la strategia per coprire lo scandalo: un’infezione da curare operando, e mi tolgono tanto di me». Poi dicono ai genitori: «Vostra figlia ha il 15 per cento di possibilità di avere bambini». Quando esce, ricorda Ljuba, «ero uno zombie, ma potevo contare sulle pillole per le sofferenze della testa». Non scrive se le abbiano mai chiesto chi era il padre di quell’embrione impiantato fuori dall’utero. Dagli uomini, «per molto tempo sono scappata». Finché a 23 anni all’ippodromo di San Siro incontra Tagliabue, vent’anni più di lei, in fase di separazione dalla moglie.
Il Pavese rientra nella vita di Ljuba anni dopo. Soggiorna spesso nella tenuta di caccia dei Rizzoli di Sedone, a Zerbolò, con la figlia Isabella che anni dopo si toglierà la vita lanciandosi da un balcone a Montecarlo, dove Ljuba Rizzoli vive oggi.
Sfollata in Valle Staffora. Figlia di un industriale milanese (il padre Pietro aveva fondato la Trapani Rosa), Ljuba vive un’infanzia di bimba ricca, poi arrivano i bombardamenti e la guerra, da Milano bisogna scappare. «Papà sull’Aprilia guidava a fari spenti in direzione Varzi – ricorda Ljuba – verso una nuova vita campagnola. Addio scarpe di vernice à la bebè e messa in Duomo, mi son trovata tra capre, galline e un cavallino che montavo a pelo». Infilava fra le lenzuola il “prete” per scaldare il letto, a 11 anni si nascondeva nel fienile col figlio del fattore: «Le prime emozioni della camporella per me, lui sarebbe diventato sacerdote».
Gli aerei mitragliatori passano sopra le teste, il fratello maggiore fugge per fare il partigiano. Altro trasloco a Bagnaria dove nel 1944 una camionetta di tedeschi arriva a cercare quei partigiani: «Tutta la famiglia contro un muro, i tedeschi sfondano le porte con il calcio dei fucili» Non trovano nessuno, se ne vanno. La famiglia Rosa si trasferisce ancora: a Rivanazzano sono ospiti degli aristocratici Zelaschi, «in un castello di tante stanze affrescate, dove abitava anche una pattuglia di Ss». Maurizia Zelaschi, «mascolina, calzettoni bianchi, organizzava serate di intrattenimento per i militari». Prende in simpatia la ragazzina Ljuba, poi le farà conoscere Wally Toscanini, figlia del maestro, «sempre in coppia con la stilista Biki, nipote di Giacomo Puccini». Nell’atelier Biki qualche anno dopo anche Ljuba sfilerà. Arriva il 1945, gli alleati bombardano Milano dove torna anche Ljuba con la famiglia, e vede i corpi di Mussolini e Claretta appesi a piazzale Loreto, coperti di sputi. Ma la bella casa dei Rosa in viale Monza non c’è più, distrutta dalle bombe: si deve tornare in Oltrepo, a Villa Pisani a Rivanazzano.
Il Ginnasio a Voghera. «Intanto il mio corpo prendeva la strada della bellezza. Capelli castani e lunghi, viso dalla bocca perfetta, occhi cerbiatti, seno prosperoso, vita sottile». La 16enne Ljuba allo specchio canta Amado Mio, come Rita Hayworth in Gilda. È il 1948: ricomincia ad andare a scuola, «prendevo il trenino per Voghera dove frequentavo il ginnasio dalle monache agostiniane». È alta, la mettono nell’ultimo banco. Un professore «figlio di un medico si sedeva accanto a me». Lei era felice, al centro dell’attenzione di un uomo importante. Un giorno lui dice: «Ti porto a casa io, in macchina».
La violenza al Monte Penice. «Mi convince a deviare vicino a Varzi per una gita». Si fermano in un baretto: «Prendiamo la cioccolata in una stanza da soli per star tranquilli, dice lui, senza gli anziani che giocano a carte». In camera l’uomo gira la chiave nella toppa, «e come un bulldozer mi piomba addosso. Non ci sono stati pugni abbastanza per fermarlo. Era la mia prima volta». Ljuba pensa al padre «che m’aveva cresciuta come una perla rara. Non potevo dirglielo». Poi il professore la riporta a casa, muta. «Mi metto a letto come malata, dopo due settimane in catalessi ho 40 di febbre». Solo allora «papà decide di portarmi all’ospedale». Lì arriva anche il figlio del medico, il prof stupratore: «È lui a darmi il responso: gravidanza extrauterina con emorragia interna. Avevano in mente la strategia per coprire lo scandalo: un’infezione da curare operando, e mi tolgono tanto di me». Poi dicono ai genitori: «Vostra figlia ha il 15 per cento di possibilità di avere bambini». Quando esce, ricorda Ljuba, «ero uno zombie, ma potevo contare sulle pillole per le sofferenze della testa». Non scrive se le abbiano mai chiesto chi era il padre di quell’embrione impiantato fuori dall’utero. Dagli uomini, «per molto tempo sono scappata». Finché a 23 anni all’ippodromo di San Siro incontra Tagliabue, vent’anni più di lei, in fase di separazione dalla moglie.
Il Pavese rientra nella vita di Ljuba anni dopo. Soggiorna spesso nella tenuta di caccia dei Rizzoli di Sedone, a Zerbolò, con la figlia Isabella che anni dopo si toglierà la vita lanciandosi da un balcone a Montecarlo, dove Ljuba Rizzoli vive oggi.
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