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«La guerra? Un gioco terribile»

Il ricordo di Massei: «I miei amici straziati giocando con gli ordigni inesplosi»

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PAVIA. «Eravamo ancora ragazzini, un gruppo di tredicenni e sedicenni residenti vicino alla basilica di San Pietro in Ciel d’Oro. Amici di quartiere. Sebbene ora fatichi a ricordare i nomi perché crescendo ho perso di vista tutti i miei compagni d’infanzia, rammento come se fosse ieri ciò che accadde il 22 maggio del 1945: un giorno di festa, il giorno di santa Rita, che si trasformò in tragedia».

A raccontare è il pavese 88enne Camillo Massei, al quale l’avvicinarsi della ricorrenza del 25 aprile, festa della Liberazione d’Italia, fa tornare alla memoria tante vicende, avventure e disavventure vissute nell’immediato Dopoguerra e negli anni ad essa appena precedenti. «Il 25 aprile, tedeschi e fascisti si arresero – continua Massei – Molti soldati si diedero alla fuga e gettarono armi, proiettili ed esplosivi a casaccio nelle campagne e negli angoli nascosti delle città. Cercarono di liberarsene ad ogni costo e senza prestare attenzione alle conseguenze delle proprie azioni: per loro l’importante era solo salvare la pelle. Così, una parte di questi armamenti venne recuperata dai partigiani, purtroppo un’altra parte rimase incustodita, trovata da giovani immaturi che ne fecero un uso sbagliato. È quello che capitò a noi».

Camillo Massei, la mattina del 22 maggio 1945, stava giocando, sotto casa, in piazza San Pietro in Ciel d’Oro. Improvvisamente venne raggiunto da una decina di coetanei entusiasti, i quali gli dissero ridendo, saltellando e urlando che avevano trovato vicino a Porta Milano cinque bombe a mano. Gli confidarono che le avrebbero fatte esplodere subito per evitare che potessero fare del male a qualcuno. Lo invitarono ad aggregarsi alla compagnia.

«Risposi che non sarei andato perché a me le armi non piacevano – prosegue Camillo Massei – Allora si allontanarono per agire da soli. Dopo un paio d’ore, annoiato e un po’ curioso, ci ripensai. Mi diressi verso il luogo dove mi avevano indicato che c’erano le bombe. Arrivato, sentii un botto spaventoso. Mi avvicinai di corsa e vidi una scena raccapricciante: un certo Ferdinando Scaroni aveva un occhio distrutto che gli usciva dall’orbita, mentre un altro ragazzo, Gianfranco Toselli, era steso a terra in un lago di sangue, completamente sfigurato e irriconoscibile. A quel punto, gli adulti cominciarono ad avvicinarsi, qualcuno chiamò l’ambulanza, un mio amico piangeva, io ero impietrito. Fu l’istante in cui mi resi conto della terribile eredità lasciataci dalla guerra: una linea di violenza e morte che chissà quando si sarebbe estinta, punendo anche gli innocenti». L’anziano pavese conclude: «Chi rimase illeso dall’incidente ricevette un’indimenticabile lavata di capo da parte dei genitori. Per altri la lezione fu maggiormente dura: un giovane perse le dita di una mano e la vista, un altro un occhio. In seguito mi spiegarono cos’era successo: avevano lanciato le bombe nel Naviglio; una non era esplosa, quindi l’avevano ripescata per capire il motivo; si era detonata nelle loro mani».

Gaia Curci
 

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