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Baldissero. «Il lavoro dentro Damanhur deve essere retribuito»

La Cassazione boccia la sentenza di appello sulla volontarietà delle attività La causa, molto controversa, era stata promossa da una fuoriuscita

Rita Cola
2 minuti di lettura

BALDISSERO CANAVESE

Il lavoro, se tale è, deve essere retribuito. Anche se espletato nell’ambito di una comunità come è Damanhur, che non è una religione riconosciuta e neppure un ente del terzo settore. Così la Corte di Cassazione, presieduta da Antonio Manna, che scrive un altro capitolo nella causa di lavoro che era stata promossa da Raffaella Ginepro, una dei fuoriusciti, per farsi riconoscere come lavoro subordinato una parte importante della su attività svolta in Damanhur negli anni dal 1983 al 2007.



E, per questo, i giudici cassano la sentenza di appello che, invece, aveva dato torto a Ginepro capovolgendo la sentenza di primo grado del tribunale di Ivrea, e rimanda la questione per un nuova definizione tenuto fede ai parametri indicati, ai giudici della Corte d’appello di Torino. Se, in primo grado, il tribunale di Ivrea aveva sottolineato come il lavoro svolto da Ginepro nel corso degli anni fosse un lavoro subordinato perché rispettava orari e obiettivi e veniva retribuito, seppure in crediti damanhuriani, la corte d’appello aveva ribaltato la sentenza.

E messo nero su bianco che era assimilabile a lavoro gratuito prestato in piena adesione alle finalità di ordine spirituale che permeano la comunità. Ora la Cassazione mette la parola fine su lavoro, osservando appunto che, se tale è, deve essere retribuito anche se prestato all’interno di un ente religioso o del terzo settore anche se, nel caso specifico, Damanhur non è né l’uno né l’altro. La Cassazione osserva quindi come, in questo caso, il rapporto che si era instaurato tra i soggetti (Ginepro e la Federazione di Damanhur), non «è sufficiente a dimostrare la natura esclusivamente affectionis vel benevolentiae (per ragioni di affetto e benevolenza) della prestazione resa, ma occorre dare la prova rigorosa che tutto il lavoro sia stato prestato per motivazioni esclusivamente religiose e non in adempimento delle ordinarie obbligazioni civilistiche».



Ginepro, quindi, nel periodo della sua permanenza in comunità, ha contribuito alla vita della comunità, ma anche lavorato: addetta alla tessitura manuale (dal 1984 al 1986), segretaria (1987), addetta a gestione di un centro culturale (1988), maestra (dal 1988 al 1996), responsabile scuola meditazione, dirigente addetta alle relazioni esterne e internazionali, fino al 2007, con un orario minimo di 180 ore mensili. Nessuna retribuzione ha ricevuto negli anni 1983 e 1984 mentre per il resto era retribuita con crediti damanhuriani, una moneta spendibile nella comunità.

In primo grado, il tribunale di Ivrea aveva dato ragione a Ginepro calcolando le differenze retributive non erogate e il trattamento di fine rapporto. In Appello, invece, la situazione era stata rovesciata. I giudici avevano ritenuto che l’adesione a una comunità che presuppone una scelta di vita totalizzante (come ad esempio un monaco che aderisce a un ordine) presuppone il sottoporsi volontariamente a obblighi per ricevere i diritti che la comunità garantisce alle persone che ne fanno parte.

Ginepro con l’avvocato Guido Uliano di Torino aveva presentato ricorso in Cassazione. Ora, ha già dato mandato all’avvocato Francesca Guarnieri di Torino di seguire il nuovo appello. Dalla sentenza di primo grado, sono passati 6 anni e mezzo. —



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