L'incontro con il “don” dei Piromalli

di Giuseppe Baldessarro

questione di rispetto

Gaetano Saffioti - Un imprenditore calabrese contro la 'Ndrangheta

Ogni volta che Gaetano Saffioti passava per lo stradone grigio del porto di Gioia Tauro ripensa a quella storia. Da Palmi ci vogliono pochi minuti di macchina. Eppure sembra di superare un confine. Palmi è Palmi, ma Gioia e Rosarno sono tutta un’altra storia. Nel regno dei Piromalli e dei Bellocco l’aria è più pesante ancora. La mafia la senti nelle narici. Dallo stradone Saffioti guardava quei grandi piazzali e ripercorreva con la mente quegli anni. I più complicati della sua vita, i più pesanti. Ne sono passati tanti di anni, e a guardare quelle distese di container gialli e rossi a ridosso dei moli, sembrava che nulla fosse cambiato. Lo stesso odore di cemento e acciaio, di lavoro e sudore, di arance e mare. E di polvere e di ‘ndrangheta.
Era il 1999 quando il commendator Francesco Persia sbarcò a Gioia Tauro. L’imprenditore pugliese aveva appena saputo che la sua società si era aggiudicato l’appalto bandito dall’Asi (Area strategica industriale) per realizzare una via di corsa e un piazzale-deposito nel quale ospitare i container in transito da Gioia Tauro. Scatole di ferro scaricate dalle grandi navi che attraversavano l’oceano per poi essere nuovamente caricate su cargo di dimensioni più contenute in partenza per i porti del Mediterraneo. Transhipment lo chiamano quelli delle multinazionali del trasporto merci.
L’impresa Persia si era aggiudicato il terzo lotto, quello che ricadeva in un fazzoletto di terra a cavallo tra i comuni di Rosarno e San Ferdinando. Un lavoro a base d’asta di 14 miliardi di lire. Saffioti aveva letto la notizia sul giornale e come altre volte aveva sperato di entrare nell’affare. Così iniziò a proporsi come da copione. Mandò le credenziali e i preventivi di spesa. Ma dalla Persia niente, le sue proposte inizialmente restarono lettera morta.
Fin quando sulla sua strada non incrociò di nuovo Pasquale D’Agostino, uomo delle famiglie, che lo rassicurò. Gli disse che se voleva “gli amici” potevano farlo entrare nell’affare, che poteva essere della partita. D’altra parte quel lavoro era loro. Poco dopo l’emissario dei clan gli aveva detto chiaro e tondo come stavano le cose: “Se lavori a 36 mila lire al metro cubo guadagni bene, noi ci prendiamo 3 mila lire e 33 restano a te. Anzi, visto che questo è un lavoro mio, facciamo che tu fatturi a Persia a 33 mila lire e siamo a posto così, nessuno di chiederà più niente».
Saffioti pensò di aver trovato l’accordo. Avrebbe dovuto pagare certo, i margini di guadagno non sarebbero stati quelli sperati, ma poteva starci dentro e non avere seccature. Chiudere il contratto era stata una pura formalità. Era già stato tutto stabilito dall’emissario del clan Bellocco.
Ad aprile del 2001, proprio il giorno della firma del contratto tra Saffioti e la ditta Persia, scattò l’operazione Conchiglia. In manette gli uomini dei clan che si occupavano di appalti. Una scossa che di fatto, e contrariamente alle aspettative di Gaetano, e forse anche di Persia, non spostò niente rispetto alla richiesta estorsiva dei Bellocco, ma che anzi rappresentò la prima di una lunga fase di corsi e ricorsi dai tratti quasi paradossali.
Dieci giorni dopo, quando la fornitura dell’imprenditore palmese al cantiere del porto era già in corso, alla porta del suo ufficio bussò un nuovo personaggio. Uno sconosciuto che gli disse che “qualcuno voleva incontrarlo”.
Si trattava di Filippo Raso, secondo cui l’accordo preso in precedenza altro non era che un patto per alcune forniture. Nella sostanza gli inerti per il cantiere Persia erano cosa loro. Di conseguenza sarebbero stati loro, attraverso la loro cava, a fornire il componente base per realizzare il calcestruzzo nell’impianto di Saffiori. La cosca “per venirgli incontro” gli avrebbero fatto un buon prezzo. Ossia 11 mila lire al metro cubo tutto compreso, contro le 16 mila lire che altri fornitori facevano normalmente. Era terraccia, materiale inutilizzabile. Tanto da essere costretto a miscelare quel materiale con pietrisco buono acquistato da altri fornitori.
Un accordo che tra l’altro si rivelò anche peggiore quando si scoprì che i camion di Raso dichiaravano un carico di molto superiore a quello che in realtà trasportavano. Fu in quella fase che Gaetano venne chiamato al cospetto di Gioacchino Piromalli. Latitante e al vertice della “famiglia” più potente di Gioia Tauro.
Gaetano sapeva chi aveva di fronte e sapeva che la sua vita in quel momento valeva poco. Una parola sbagliata, un riferimento inopportuno, un sospetto e i suoi giorni sarebbero finiti. Piromalli lo stette ad ascoltare per alcuni minuti che a Gaetano erano sembrati infiniti, poi fu lui a parlare. E dettò le regole. Avrebbe anche potuto continuare a lavorare sul territorio di Gioia Tauro sia negli appalti pubblici che privati. Ma non avrebbe potuto fare movimento terra. Quel settore spettava agli “amici” e lui non avrebbe dovuto metterci il naso. Poteva invece fare le forniture di calcestruzzo e di misto cementato. I clan avrebbero avuto 5 mila lire per ogni metro cubo che da quel momento in poi sarebbe passato sul loro territori, il resto non era affar loro. Prendere o lasciare. Anzi, prendere e basta. Ora Gaetano era schiacciato. Doveva dare 3 mila lire al metro cubo di materiale ai Rosarnesi, altre 5 mila ai Piromalli per il passaggio delle forniture da Gioia Tauro ed in più era costretto a prendere il materiale inerti sempre dagli stessi.
E non è finita. Negli stessi mesi Gaetano Saffioti aveva incontrato il commendatore Persia e suo nipote. I due imprenditori si erano lamentati dei costi del calcestruzzo. Gli avevano chiesto di abbassare il prezzo. In cambio erano disposti a fare qualche concessione. Evidentemente anche loro erano strangolati dalle continue richieste estorsive. Era chiaro.
A parità di fattura, gli proposero, avrebbe potuto mettere meno cemento nell’impasto. Il misto cementato invece di avere cemento al 60 o al 45, come da contratto, ne avrebbe potuto contenere di meno, si poteva scendere anche al 30. I baresi ipotizzano di realizzare i piazzali con il classico sistema del panino. In fondo allo scavo avrebbero messo calcestruzzo di bassa qualità, in mezzo ci sarebbe finito uno strato di inerti senza cemento e in superficie si sarebbe fatto uno strato di alcuni centimetri di impasto buono. Ci sarebbe stato un risparmio nei materiali e un margine di guadagno maggiore per tutti, le fatture sarebbero state fatte comunque come da accordi precedenti.
L’azienda sarebbe stata garantita e in caso di eventuali controlli le carte sarebbero state in regola. Saffioti aveva deciso a quel punto di lasciare il lavoro. Aveva detto no, questo no.

(12 - continua)

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